O il Gesù di Paolo o quello di Nietzsche
O il Gesù di Paolo o quello di Nietzsche
Nietzsche fu sempre avversario del cristianesimo, particolarmente della morale cristiana, o meglio della morale dei cristiani, sin dalla sua prima opera: La nascita della tragedia (1872). Nel «Tentativo di autocritica», che funge da introduzione alla terza edizione dell’opera (1886), egli scrive: «Contro la morale si volse dunque allora, con questo libro problematico, il mio istinto, come un istinto che parla a favore della vita, e inventò una sistematica controdottrina e controvalutazione della vita […]. Come chiamarla? […] Giacché chi saprebbe l’esatto nome dell’anticristo?». L’anticristo è il nome dell’ultima opera che Nietzsche riuscì a completare (1888). Era pronta per la stampa quando lo colse la follia. Qui Nietzsche, al fine di conseguire la definitiva vittoria sul cristianesimo, distingue ciò che egli intende per vero cristianesimo, quello di Gesù, che il solo Gesù avrebbe praticato, da tutto ciò che poi fu posto sotto il nome di Cristo per opera di Paolo di Tarso. A conclusione di questo scritto è posta la «Legge contro il cristianesimo», in sette articoli, munita di ben due sottotitoli: «Data nel giorno della salvezza, nel primo giorno dell’anno uno (il 30 settembre 1888 della falsa cronologia)», e «Guerra mortale contro il vizio: il vizio è il cristianesimo».
Già sette anni prima (in Aurora, del 1881, af. n. 68) Nietzsche aveva visto in Paolo «il primo cristiano», e lo aveva attaccato come responsabile – a suo avviso – del fatale affermarsi del cristianesimo. Lo aveva apostrofato come «questo epilettico». Paolo, non riuscendo a rispettare la Legge mosaica, avrebbe visto nella croce di Gesù la via d’uscita per giustificare la sua inadeguatezza morale: «Era la morale ad esser soffiata via poiché era la morale ad esser volata via, ad esser distrutta, - vale a dire adempiuta sulla croce!». Ma il conflitto psicologico di Paolo non poteva bastare, nemmeno per lo stesso Nietzsche, per spiegare la visione paolina del cristianesimo ed il suo successo epocale. Bisognava portare a Paolo un attacco a fondo. Cosa poteva essere più indicato che scavare un abisso fra Paolo e lo stesso Gesù? Ciò accade in L’anticristo.
Paolo avrebbe ingannato tutti. Sulla strada di Damasco non avrebbe incontrato il Risorto, ma un’«idea»: la «resurrezione» promessa a tutti sulla base del suo asserito incontro con il risorto Gesù: «Fu questo il suo attimo di Damasco: egli si rese conto che aveva bisogno della fede nell’immortalità, per svalorizzare “il mondo”, che l’idea dell’“inferno” si sarebbe impadronita anche di Roma – che con l’“al di là” si uccide la vita» (L’anticristo n. 58).
Nietzsche identifica, invero in modo scorretto, resurrezione e immortalità. La dottrina dell’immortalità dell’anima era presente nella filosofia greca. Se Paolo si fosse limitato a parlare dell’immortalità dell’anima, non avrebbe detto nulla di particolarmente nuovo. Secondo Nietzsche, il «genio» di Paolo consistette nel fare dell’immortalità dell’anima, di per sé concernente l’aldilà, il veicolo per diffondere la dottrina dell’uguaglianza degli uomini già qui sulla terra: «Il veleno della dottrina dei “diritti uguali per tutti” – è stato diffuso dal cristianesimo nel modo più sistematico […]. Il cristianesimo ha fatto una guerra mortale ad ogni senso di venerazione e di distanza fra uomo e uomo […]. Concedere l’“immortalità” a ogni Pietro e Paolo, è stato fino a oggi il più grande e maligno attentato all’umanità nobile» (Ivi, n. 43).
In queste parole non si deve scorgere un Nietzsche razzista o classista, come è spesso accaduto e ancora accade. Egli è convinto che l’umanità tutta sia di per sé fatta per diventare «nobile», ed accusa il cristianesimo di Paolo di avere privato di questa nobiltà gran parte degli uomini, la cristianità tutta e non solo, proprio predicando l’uguaglianza degli uomini a prescindere da tale potenziale e doverosa nobiltà. In che cosa dunque consiste questa? Nell’«autosuperamento», ossia nella capacità e nel dovere dell’uomo, di ogni uomo, di superare se stesso. Un’immortalità promessa a tutti indipendentemente da tale autosuperamento funziona da incentivo a restare quello che si è, a non «diventare ciò che si è», cioè veri uomini, uomini di continuo impegnati nell’autosuperamento. È questo il filo conduttore di Così parlò Zarathustra, l’opera più bella e famosa di Nietzsche. «L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo?». Queste parole di rimprovero sono le prime che Zarathustra, dopo la sua decennale solitudine sui monti, pronuncia alla folla del «mercato»: sono rivolte a tutti, nessun uomo escluso, in vista di un oltrepassamento di sé a cui ogni uomo è tenuto. Tutti possono diventare il «superuomo», ma devono anzitutto mirare a non essere uguali l’uno all’altro, perché allora non farebbero che perdere tempo nello «strizzare l’occhio» agli altri, per carpire l’inconfessabile intesa nell’impedirsi a vicenda di portare più in alto l’essere uomo in quanto tale.
Mirare in alto è un dovere per tutti. Nietzsche non nega l’uguaglianza fra gli uomini, ma pretende che questa sia un’uguaglianza al vertice, mentre l’obiettivo di un’uguaglianza qualsiasi, al prezzo della rinuncia al superamento di sé, è un «diritto» intrinsecamente disumano. Pretendere l’uguaglianza dei «diritti» è ciò che caratterizza l’«ultimo uomo»: la figura che Nietzsche contrappone al «superuomo». L’obiettivo dell’ultimo uomo non è l’autosuperamento ma la comparazione e l’equiparazione con tutti gli altri. Questo tipo di uomo spera così di poter avere la sicurezza, tranquillizzante ma paralizzante, che non c’è altro ideale se non ciò che è meno impegnativo, e per questo meno pericoloso. Gli ultimi uomini non pensano affatto alla loro fine, ma a «campare più a lungo». È il loro fine, la loro «felicità», da raggiungere con la tacita ma universale intesa a rinunciare all’autosuperamento. Per questo l’ultimo uomo non persegue la semplice uguaglianza, ma quella basata sul sospetto che ogni differenza fra uomo e uomo sia di per sé un pericolo: «Nessun pastore e un sol gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali: chi sente diversamente va da sé in manicomio […]. “Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio» (Così parlò Zarathustra, «Prefazione di Zarathustra», n. 5).
Nel Paolo che Nietzsche prende a bersaglio in L’anticristo possiamo scorgere il solo «pastore» accettabile dal «sol gregge» degli «ultimi uomini». Questi non riconoscono alcuna nobiltà, sono al tempo stesso anarchici e egualitari, e per questo appunto devono combattere contro ogni uomo che aspiri alla nobiltà. Paolo venne in loro soccorso. Divinizzando Gesù, o meglio il Crocifisso, infuse in questa massa anonima e rinunciataria un’unificante e travolgente carica rivoluzionaria nei confronti dei «nobili»: «Quel che lui divinò […] fu come si potesse assommare, col simbolo di “Dio in croce”, tutto quanto stava in basso, tutto quanto era segretamente in rivolta, l’intera eredità delle macchinazioni anarchiche nell’impero, per farne un’enorme potenza» (L’anticristo, n. 58). Era necessario accusare Roma, la suprema autorità allora esistente sulla terra, di aver commesso il delitto supremo: aver ucciso in croce Dio. Il successo di Paolo è il successo della “croce”. Un deicidio da vendicare riuscì ad avvelenare alla radice l’impero romano. Gesù, un innocente, morì in croce, ma questo fatto, di per sé banale, divenne in Paolo: il deicidio. Ciò fa dire a Nietzsche che la croce fu «il più funesto degli alberi» (Così parlò Zarathustra, «Di antiche tavole e nuove», n. 12). Ed ecco Nietzsche accusare Paolo di aver falsificato anzitutto la morte di Gesù in croce.
Ciò implicava una critica all’attendibilità storica dei racconti della Passione tramandata dai Vangeli. Il clima creato dalla contemporanea critica storica applicata al Nuovo Testamento favorì l’intento di Nietzsche. Egli conosceva la Vita di Gesù di D.F. Strauss (quella del 1864, non quella, scientificamente superiore, del 1835)1, la cui lettura gli aveva fatto perdere la fede quando aveva vent’anni; conosceva anche la Vie de Jesus di Renan, (pure citata, ma duramente criticata in L’anticristo). Anche lui era dunque autorizzato a proporre una ricostruzione storica della personalità di Gesù, e della causa della sua morte: «Non conosceva che le lacrime e la malinconia dell’Ebreo, insieme all’odio dei buoni e dei giusti – L’Ebreo Gesù: ed ecco lo assalì il desiderio di morire […]. Credetemi fratelli! Egli morì troppo presto; egli stesso avrebbe ritrattato la sua dottrina, fosse giunto alla mia età! Egli era tanto nobile da ritrattare!» (Così parlò Zarathustra, “Della libera morte”).
La «nobiltà» è per Nietzsche il valore di tutti i valori. Sta alla base di quel «pathos della distanza» che dovrebbe proteggere i nobili dall’assalto della massa. In L’anticristo apparentemente non resta a Gesù più nulla di questo riconoscimento di nobiltà. Nietzsche arriva addirittura ad usare l’appellativo «idiota» (n. 29). I primi editori del testo (l’ex Archivio Nietzsche, guidati Elisabeth Nietzsche-Förster) censurarono questa parola (se ne ebbe notizia solo nel 1931). Invero, nell’uso che ne fa Nietzsche, il termine «idiota» deve essere letto a prescindere dalla carica offensiva che di solito lo accompagna. Lo ha chiarito, nel 1944, Martin Dibelius2, uno dei maggiori esponenti della cosiddetta «Formgeschichte». Egli collega il termine «idiota» usato da Nietzsche per Gesù al titolo dell’omonimo romanzo di Dostoevskij, un autore ben noto a Nietzsche e da lui ammirato. Nel romanzo, il principe Myskin, (l’Idiota) è il solo tipo di uomo in cui, data una società corrotta, può essere pensato, in modo polemicamente controfattuale, un residuo di umanità autentica.
In L’anticristo Nietzsche presenta l’«idiota» Gesù come una «mescolanza di sublimità, malattia e infantilismo» (n. 31), tutt’altro che un «genio» di falsità, quale viene stigmatizzato Paolo, ma pur sempre geniale, anzi unico, quanto a proposta di vita. A Gesù Nietzsche attribuisce un insegnamento che egli non può non ammirare, che vorrebbe – lo si legge fra le righe – poter condividere. Gesù avrebbe predicato e praticato il «regno di Dio», un regno non futuro, e nemmeno imminente, ma già presente in lui stesso, in ogni suo atto. Il Gesù di Nietzsche mette in pratica il regno di Dio, in questo mondo, soltanto in questo: «La beatitudine non viene promessa, non è associata a condizioni: essa è la sola realtà – il resto è segno per poter parlare di essa… La conseguenza di un tale stato si proietta in una nuova pratica di vita; la pratica propriamente evangelica […]. La vita del redentore non è stata nient’altro che questa pratica – anche la sua morte non fu null’altro…» (n. 33). Gesù non è un platonico: non pone Dio e il suo regno nell’aldilà, non contrappone il cosiddetto «vero mondo» al mondo solo «apparente». In ciò sta per Nietzsche l’abissale differenza che separa il suo Gesù dal suo Paolo, e dal cristianesimo fondato da Paolo: diversamente da Paolo, Gesù «in pratica» non aveva bisogno di fare alcun riferimento a ciò che all’uomo accadrà dopo la morte: «Si traduca un siffatto habitus fisiologico nella sua logica ultima – come […] ripugnanza ad ogni formula, a ogni concetto spazio-temporale, a tutto ciò che è stabile, costume, istituzione, Chiesa, come uno starsene di casa in un mondo con cui non viene più in contatto alcuna specie di realtà, in un mondo meramente “interiore”, un mondo “vero”, un mondo “eterno”… “Il regno di Dio è in voi”» (n. 29) (cfr. Lc 17, 20).
Fra le figure descritte o inventate da Nietzsche, Gesù costituisce un unicum. Gesù non solo visse in assoluta coerenza con la sua visione del regno di Dio, ma seppe morire quale effettivo fruitore di questo regno: un regno già qui possibile, già realizzato da lui stesso nel suo modo di vivere e di morire. Secondo Nietzsche, nemmeno Socrate sarebbe morto in modo talmente regale; certo seppe vivere «serenamente», da ottimista; ma alla fine, ordinando a Critone di sacrificare un gallo ad Asclepio, il dio della medicina, si sarebbe lasciato sfuggire il segreto di tutta una vita. Infatti, il veleno che stava producendo il suo mortale effetto fu da lui equiparato a un’efficace e risolutiva medicina: «Queste terribili e “ultime parole” significano per chi ha orecchie: “O Critone, la vita è una malattia”. Possibile? Pessimista un uomo par suo?» (La Gaia scienza, af. 340). Gesù invece, secondo Nietzsche, non ingannò nessuno, né in vita né sulla croce. In croce dimostrò la verità della sua concezione del Regno, qui la realizzò con pieno successo, anche pubblico. A conferma, Nietzsche ricorda le parole pronunciate sotto la croce dal centurione [da lui erroneamente attribuite al “ladrone”]: «Questi è stato in verità un uomo divino, un “figlio d’Iddio”!» (L’anticristo, n. 35).
A Gesù Nietzsche riconosce l’avere orientato tutta la sua vita, compresa la sua morte, nella “pratica” del regno. Gesù non promette a nessuno il regno in un aldilà: il vero regno di cui si fa «lieto messaggero» c’è già qui, perché la vita secondo il regno la si può e la si deve praticare già qui. Questo mondo è il «vero» mondo. Per Nietzsche, Gesù è il «grande simbolista»: toglie al mondo il pungiglione che induce gli altri uomini a ridurre questo mondo a «mondo apparente», a tradire il mondo e a ingannare se stessi. Gesù, invece, resta nel mondo e qui vive regalmente. La sua ininterrotta attività simbolizzante sa prevenire e vanificare le minacce che l’uomo teme di dover affrontare con la morte e dopo la morte: «L’“ora della morte” non è un concetto cristiano – l’“ora”, il tempo, la vita fisica e le sue crisi non esistono affatto per il maestro della “lieta novella”… Il “regno di Dio” non è qualcosa che s’attende: non ha un ieri e un dopodomani, non giunge tra “mille anni” – è l’esperienza di un cuore; esiste ovunque e in nessun luogo…» (L’anticristo, n. 24). Ed ecco che Gesù, pur di restare fedele alla terra, la trasfigura tutta in «simboli» di vita interiore: una trasfigurazione possibile per un uomo che ama questo mondo. Del mondo Gesù ama tutto, ma particolarmente proprio ciò che invece induce gli altri a giudicare, a condannare questo mondo, a negargli «verità»: «Egli non resiste, non difende il suo diritto, non fa un passo per allontanare da sé il punto estremo, fa anzi qualcosa di più, lo provoca […]. Non difendersi, non sdegnarsi, non attribuire responsabilità… Ma neppure resistere al malvagio – amarlo…» (L’anticristo n. 35).
Il Gesù «grande simbolista» è dunque la figura nuova che in L’anticristo Nietzsche introduce per poter contrapporre il suo Gesù, «idiota», al suo Paolo, «genio» negativo. Questo Gesù non ha nulla in comune nemmeno con il Gesù voluto dal medesimo Nietzsche nella sua, di poco precedente, Genealogia della morale (1887). Qui Gesù è ancora solo una variante, certo paradossale , dell’odio degli Ebrei per tutta la restante umanità: egli avrebbe fatto trionfare la «seduzione» con cui una razza servile sarebbe riuscita ad introdurre una «trasvalutazione di tutti i valori» (i valori dei «risentiti» al posto di quelli dei «nobili», dei «potenti», dei «signori») fatale per la successiva umanità. Servendosi come «esca» proprio dell’amore predicato da Gesù, gli Ebrei avrebbero usurpato per sé soli la qualifica di «buoni», originariamente spettante ai soli nobili, per poter poi identificare questi con «i malvagi». L’amore di Gesù sarebbe così diventato la maschera dell’odio e l’arma segreta del «risentimento» con cui gli Ebrei, uomini «reattivi» e come tali incapaci di produrre cose veramente buone, avrebbero odiato e vinto gli uomini «attivi», i soli non bisognosi di contrapporre bene e male, e per questo i soli ad essere veramente buoni, ma anche i perdenti sul piano storico.
In L’anticristo Gesù non è più la longa manus dell’ebraismo. Non odia affatto il mondo e questa vita, non divide gli uomini in buoni e cattivi, non nutre risentimento nei confronti di nessuno. Nietzsche gli attribuisce un’originale «pratica del regno», lo pone dunque fra gli uomini «attivi», i «nobili»; e proprio questa nuova visione del Gesù «simbolista» gli serve per accusare Paolo di avere falsificato Gesù.
La «pratica del regno» di Gesù serve a Nietzsche per criticare a fondo la morale cristiana, a suo avviso una morale dualistica, filosoficamente inaccettabile in quanto presupponente, dunque falsa. Si prenda in considerazione il capitoletto del Crepuscolo degli idoli (un’opera nata insieme a L’anticristo) intitolato “Come il mondo vero finì per diventare favola”; poco più di una pagina. Nietzsche attacca qui il cristianesimo come tappa di una più che bimillenaria vicenda filosofica, o meglio di un errore filosofico, che avrebbe avuto origine in terra greca a partire dal dualismo platonico di un mondo «vero», quello che sta al di là del nostro mondo, e di un mondo solo «apparente», il nostro mondo: «Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso, - egli vive in esso, lui stesso è questo mondo. (La forma più antica dell’idea, relativamente intelligente, semplice, persuasiva. Trascrizione della tesi “Io, Platone, sono la verità”)». Nel seguito Nietzsche indica le tappe storiche (il cristianesimo, Kant, il positivismo) attraverso cui il cosiddetto “mondo vero” diventa «un’idea inutile e superflua, quindi un’idea confutata». Sì, confutata non perché logicamente contraddittoria, ma per la sua mancanza di serietà. Il cosiddetto «mondo vero», lungi dall’essere frutto di un elevarsi di Platone rispetto al suo mondo, è qualcosa di cui questi dovrebbe vergognarsi. Il suo mondo vero non è nient’altro che la presunzione dello stesso Platone di essere la verità: una verità tagliata a sua misura, una verità di comodo, un arbitrio. Cosa resta, Nietzsche infine si chiede, una volta eliminata l’idea di «vero mondo»? Resta forse solo il «mondo apparente»? Niente affatto: «Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!». Resta, come egli anche afferma, un «Platone rosso di vergogna».
Ma perché mai – bisogna chiedersi – Nietzsche ha sentito il bisogno di accusare Paolo di una colpa, il dualismo, che egli per altro imputa a Platone? La risposta ce la offre lo stesso Nietzsche: nella dottrina paolina della resurrezione egli coglie l’essenza stessa del cristianesimo. Ma questo non è nient’altro che «platonismo per il “popolo”» (Prefazione di Al di là del bene e del male).
Nietzsche fraintende Paolo e strumentalizza Gesù per combattere il dualismo e il moralismo diffuso nella cristianità, invero un dualismo di ascendenza greca, assolutamente estraneo tanto a Gesù quanto a Paolo. Nietzsche combatté per una giusta causa etica e filosofica, ma incorrendo in fraintendimenti ed autofraintendimenti che risultarono fatali anche per il suo contributo alla stessa filosofia, e per le interpretazione che di essa vennero successivamente fornite dalle ideologie di destra e di sinistra nel corso del XX secolo. Nietzsche, in nome del «superuomo», combatté il dualismo sul piano gnoseologico e l’ipocrisia sul piano etico, ma restò estraneo alla «Buona novella», che è la stessa in Gesù e in Paolo.
Non capì che al centro, sia della vita di Gesù sia dell’immedesimazione con Gesù da parte di Paolo, sta un amore che è irriducibile anche alle più alte virtù celebrate dall’etica precristiana. Queste - come recita un detto che risale a sant’Agostino - «sono solo splendidi vizi». Nietzsche non capì che è proprio la novità dell’amore cristiano ciò che dà ai credenti la forza per restare «più che vincitori3», proprio in questo mondo. L’agàpe è quell’amore che «tutto sostiene, in tutto ha fiducia, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13, 7; tr. di G. Barbaglio). Come poté Nietzsche non tener in alcun conto il capitolo 13 della Prima Lettera ai Corinzi, un luogo famoso che egli doveva pur conoscere? Qui l’Apostolo inneggia non all’eros, un termine che mai ricorre nel Nuovo Testamento, bensì all’agàpe, un sostantivo che non è presente nel greco classico. Nietzsche fu professore di greco, al liceo e all’università: non poteva non aver notato la novità del termine agàpe, spia di una inaudita novità concettuale. Eppure anche in Nietzsche è presente la volontà di «superare» la visione tradizionale o moralistica dell’amore.
Nell’Introduzione di Così parlò Zarathustra, troviamo ciò che possiamo considerare l’inno all’amore di Nietzsche, e che possiamo pertanto porre a confronto con quello di Paolo. Zarathustra si dice disposto ad amare, ma solo quelli che rivelano un comportamento degno di amore: «Io amo colui l’anima del quale trabocca da fargli dimenticare se stesso e tutte le cose dentro di lui: tutte le cose divengono così il suo tramonto» (nn. 8-10). Per ben diciotto volte Zarathustra intona il ritornello «io amo colui che….», seguito ogni volta dalla descrizione di comportamenti che hanno quale elemento comune la volontà di «tramontare». Sembra qualche volta di cogliere in essi un’eco dell’abnegazione cristiana: «Io amo colui l’anima del quale si dissipa e non vuole essere ringraziato, né dà qualcosa in cambio: giacché egli dona sempre e non vuole conservare se stesso». Ma si tratta di un amore che è ammirazione per chi si sacrifica per «superare se stesso», non per amore di qualcuno, magari tutt’altro che amabile. Si tratta certo di un amore grande, che non pone limiti al sacrificio di sé per la persona amata, ma è anche da riservare solo a chi merita amore incondizionato, è un amore esclusivo: dunque non è incondizionato amore, amore e basta.
Si comprende allora perché Nietzsche non abbia potuto accettare il «discorso della croce [logos staurou]» che Paolo pone a fondamento dell’amore cristiano. Per il Nietzsche che ammira il Gesù «grande simbolista» è inconcepibile il «Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1 Cor 1, 23). Paolo predica in Cristo crocefisso un amore veramente incondizionato perché rivolto anzitutto a chi non lo merita: «A stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio mostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5, 7-8). Ciò che per Nietzsche è intollerabile nella croce di Cristo non è l’ingiusta morte dell’innocente, ma il fatto che Gesù sia morto per redimere «i peccatori», dunque con un atto di amore supremo per coloro che, dal suo stesso punto di vista, non avrebbero dovuto essere oggetto di alcuna amabilità. Nietzsche pone in risalto il modo con cui Gesù morì in croce e ne ammira la capacità di interiorizzazione; porta addirittura Gesù come esempio di un amore possibile per tutti, ma non vede nel suo morire un atto di amore per qualcuno, bensì un prescindere dalla «realtà» urtante che è presente in tutti. In definitiva: o il Redentore o il «grande simbolista», o il Gesù di Paolo oppure quello di Nietzsche: «Questo “lieto messaggero” morì come visse, come aveva insegnato – non per “redimere gli uomini”, ma per indicare loro come si deve vivere. La pratica della vita è ciò che egli ha lasciato in eredità agli uomini» (L’anticristo, n. 35). Di questa eredità nulla sarebbe rimasto nel Gesù predicato da Paolo: «Che cosa non ha sacrificato all’odio questo disangelista [Dysangelist]. Innanzitutto il redentore: lo inchiodò sulla sua croce […]. Il tipo del redentore, la dottrina, la pratica della vita, la morte, il significato della morte, persino quel che seguirà alla morte – nulla restò intoccato, nulla mantenne anche una piccola somiglianza con la realtà. Paolo non fece che trasferire il centro di gravità di tutta quell’esistenza dietro questa esistenza, nella menzogna del Gesù “risuscitato”. Egli non poteva, in fondo, aver bisogno della vita del redentore – gli occorreva la morte sulla croce e qualcos’altro ancora …» (L’anticristo n. 42). A che cosa Nietzsche allude con questi puntini di sospensione? Di che cosa Paolo avrebbe avuto bisogno oltre alla vita e alla morte in croce di Gesù?
Non Paolo, ma anzitutto Nietzsche aveva bisogno di qualcos’altro rispetto a un Gesù che muore in croce da imperterrito «simbolista» anche nei confronti della realtà della sua stessa morte infame. Anche Nietzsche aveva bisogno di un redentore capace di amore incondizionato nei confronti di tutti gli uomini. Di questo bisogno troviamo in Nietzsche una testimonianza nell’espressione con cui indica il suo ideale di uomo nelle sue opere più impegnate con il problema della morale.
In Al di là del bene e del male (n. 207) Nietzsche auspica la venuta di un «uomo complementare, in cui si giustifichi la restante esistenza»; analogamente, in La genealogia della morale (I, n. 12) egli chiede al lettore il permesso di rivolgere il suo sguardo visionario «a un uomo che giustifichi l’uomo, a una fortunata, complementare e redentrice, ventura umana, in virtù della quale si possa mantenere la fede nell’uomo». Anche in Nietzsche agisce l’istanza di una redenzione di tutto l’umano, e dunque anzitutto della «restante esistenza», proprio quella più bassa, meno amabile, «malvagia», cattiva in ogni senso. Altrimenti come si potrebbe conservare la «fede nell’uomo»? Non più, dunque, il «superuomo» ma «l’uomo complementare». L’amore di Dio per tutto l’uomo e per ogni uomo, l’amore cristiano, è presente anche in Nietzsche, nonostante Nietzsche.
Nietzsche resta attuale non «al di là del bene e del male», ma nel bene e nel male. La sua guerra al cristianesimo e a Paolo resta di grande attualità ogni volta che il cristiano deve prendere sul serio il problema del male nel mondo. Mi sia concesso fare due riferimenti a due grandi cristiani della prima metà del secolo scorso: Dietrich Bonhoeffer e Simone Weil, che avevano ben presente l’importanza della sfida alla cristianità portata da Nietzsche.
Bonhoeffer vide nel filosofo Nietzsche non l’anticristiano, ma le domande a cui il cristiano moderno, il cristiano «adulto» è chiamato a rispondere. Bonhoeffer ha posto particolare attenzione a cogliere nella Croce di Cristo non «il più funesto degli alberi», ma il luogo in cui Cristo prende la responsabilità di chi si è reso irresponsabile. Cristo è colui che in croce si pone al posto di chi si trova sradicato dalla propria umanità:
«Gesù Cristo è per i suoi fratelli, in quanto sta al loro posto [an ihrer Stelle steht]. Cristo sta davanti a Dio per la sua umanità nuova. Ma se è così, è egli stesso la nuova umanità. In forza della sua struttura pro me, egli è in rappresentanza [stellvertretend] dell’umanità, là dove dovrebbe esserci questa. Egli è la comunità dei fedeli. Non soltanto agisce per essa, ma è la comunità dei fedeli, mentre va in croce, mentre porta i peccati e muore».
Cristo è:
«“l’uomo per altri” [der Mensch für andere]!, e perciò il crocifisso».
Contemporanea di Dietrich Bonhoeffer è Simone Weil (1909-1943) della quale si celebra quest’anno il centenario. Durante la sua breve vita prese costantemente a tema il dolore, la sventura, il male che domina la storia tutta e sembra sempre vincitore. Che senso ha il Crocefisso in un mondo dominato unicamente dalla «forza», da quella «volontà di potenza» che è anche la spiegazione che Nietzsche dà della vita?
Fra i pensieri sparsi, spesso semplici aforismi, lasciati da Simone Weil nei suoi «Quaderni», ve ne sono molti sul tema della Croce di Cristo. Spingono a riflettere in senso opposto a quello di Nietzsche e a favore del «discorso della croce» di Paolo:
«La croce è una bilancia, dove un corpo fragile e leggero, ma che era Iddio, ha sollevato il peso dell’intero mondo. “Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo”. Questo punto d’appoggio è la croce».
Cosa resta allora dell’attacco di Nietzsche a Paolo e al cristianesimo? Resta il suo invito a «dire sì» a questo mondo, ad essere «fedeli alla terra». La stessa dottrina del «superuomo» esprime un’incondizionata volontà di vittoria su ogni chiusura in sé a vantaggio di tutto ciò che la vita porge, anche di ciò che più urta. Combattendo il dualismo, e le sue implicazioni etiche, Nietzsche si pone dalla parte del dovere dell’uomo di uscire da sé. Karl Jaspers ha bene evidenziato che l’antropologia di Nietzsche è appunto caratterizzata da un costante anelito di trascendenza.
Nietzsche ha voluto essere anticristiano, ma è risuscito ad esserlo solo nei confronti di una cristianità imbevuta di dualismo e corrosa dall’ipocrisia. In tal modo, andando contro le sue stesse intenzioni, ha finito per attirare la nostra attenzione su ciò che fraintende o trascura: la resurrezione dei morti, che è cosa del tutto diversa dall’immortalità dell’anima, la morte in croce di Gesù, che non è solo un morire senza paura della morte, la dottrina dell’agape, fondamento dell’insegnamento e della teologia di Paolo. Ed anche una tale omissione è per noi molto significativa per renderci attenti a Paolo quando ci avverte che un tale amore non è conquista ma dono: «Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d’uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1 Cor 2, 9).
Umberto Regina