Odifreddi - Valzania, La via lattea

 

Nel libro gli autori raccontano le loro «schermaglie verbali» durante il pellegrinaggio che hanno effettuato a piedi da Roncisvalle a S. Giacomo di Compostela (Spagna) dal 24 aprile al 26 maggio 2008, in collegamento quotidiano con un programma della RAI (Radio 3). Odifreddi è un matematico ateo, Valzania è un giornalista credente (che per un tratto del cammino – lungo complessivamente circa 800 chilometri – viene sostituito dallo storico cattolico Franco Cardini). La meta del pellegrinaggio è costituita dal luogo della supposta sepoltura dell’apostolo Giacomo, dove si erge una basilica. Compostela si trova sull’Atlantico, all’estremità occidentale dell’Europa. Giungere fin qui in pellegrinaggio significa per la tradizione cristiana seguire il cammino che avrebbe fatto l’angelo per trasportare su una barca il corpo dell’apostolo, martirizzato in Palestina nel 44. Questo pellegrinaggio, come accade in analogia con la «Via Francigena», è stato da alcuni anni rilanciato anche sul piano turistico.

Molti sono i richiami simbolici di questo cammino legati alla fede, all’arte, alla storia, alla scienza. Il titolo del libro, La Via Lattea, allude al fatto che in Spagna e in Portogallo il cammino verso Santiago viene chiamato così, anche perché la nostra galassia ha l’andamento da est ad ovest. Per lo scienziato Odifreddi la Via Lattea non ha a che fare né con il mito greco (la galassia sarebbe stata generata dal latte di Giunone) né con la tradizione religiosa. La Via Lattea è un enorme ammasso stellare come stabilito dal cannocchiale di Galileo, che nel 1609 ne annunciò la scoperta nel Sidereus Nuncius (p.12).

Durante il percorso lo scienziato ateo e il giornalista credente discutono spesso sul concetto di infinito proprio perché ora si sa che le galassie sono innumerevoli, e che continuano ad allontanarsi fra di loro, per cui la scienza non riuscirà mai a giungere al confine dell’universo.

Comunque, davanti alla volta celeste può accadere persino di confondere la Critica della ragion pura con la Critica della ragion pratica, come succede allo scienziato a proposito di una celebre citazione kantiana (p. 11)!

Esiste l’infinito? Odifreddi osserva che «in informatica non soltanto non c’è l’infinito, ma non ci sono neppure i numeri finiti “troppo grandi”» (pp. 178-179). La scienza ha dimostrato (teorema di Gödel, del 1931) che nessun sistema, per quanto lo si amplii, è in grado di dimostrare se stesso; Heisemberg, con il suo famoso «principio di indeterminazione», del 1925, ha accertato l’impossibilità di misurare la posizione e la velocità delle particelle elementari nello stesso istante (p. 43).

Per il giornalista credente i limiti insuperabili del pensiero scientifico non significano l’impossibilità per l’uomo di avere a che fare con le verità concernenti il senso della vita. Esse appartengono ad un ordine di verità diverso da quello della scienza. Già nella stessa contemplazione estetica, offerta durante il pellegrinaggio dalla natura nella stagione primaverile e dagli edifici religiosi medioevali, è qualcosa che resta chiuso alla spiegazione scientifica: «L’equazione della bellezza non è ancora stata scoperta» (p. 67).

Per Odifreddi, i sentimenti di elevazione, le meditazioni profonde, gli stati di estasi, le esperienze religiose in generale, sono fenomeni da ricondurre al maggiore o minore tasso di ossigeno presente nel nostro sangue, sono insomma prodotti di «attività aerobiche» (p. 226), pensieri di nulla. A suo avviso, Kant ha definitivamente dimostrato la vanità di tutte le prove dell’esistenza di Dio presenti nella storia della filosofia (pp. 86-87; 233-234). Dimentica così, ancora una volta, il Kant della Critica della ragion pratica, dove, come è noto, l’esistenza di Dio è un «postulato» fondamentale per la fondazione della morale. Kant si è certo impegnato a dimostrare l’impossibilità delle prove «metafisiche», ma ha ritenuto che senza Dio è impossibile una morale razionale.

Il giornalista Valzania non è un esperto di filosofia, ma di scienze delle comunicazioni. Egli si limita ad affermare che «non c’è limite alla potenza di Dio» (p. 235), e così pone Odifreddi davanti alla contraddizione di concepire la scienza come una ricerca infinita che, negando Dio, rifiuta il presupposto stesso del suo infinito espandersi ed approfondirsi: «Se Dio ogni tanto decide di fare un miracolo non vedo chi Glielo potrebbe impedire, per fare un gesto che aumenta la perfezione del creato e diminuisce la noia. Sarebbe un universo molto poco divertente quello dove Dio sta solo a guardare» (p. 261).

Per Odifreddi, i fenomeni che la matematica e la fisica non riescono a spiegare possono essere agevolmente chiariti facendo ricorso alla teoria dell’evoluzione come formulata da Ch. Darwin nel celebre libro L’origine della specie, del 1859, che per lui costituisce la «Bibbia della natura» (p. 25). Il successivo libro scritto da Darwin, L’origine dell’uomo, del 1871, può a suo avviso spiegare anche il mondo della storia umana (p. 98). Se restano ancora domande senza risposta, allora vuol dire che si tratta di domande senza senso. Per Odifreddi, sono proprio le domande sul senso della vita ad essere prive di senso: «Sul “senso” io posso dire che uno dei modi di riformulare il grande teorema di Gödel è che non tutte le domande ammettono una risposta» (p. 98). Si deve anzi dire che «le domande di senso sono le più insensate» (p. 99).

Ciononostante Odifreddi trova estremamente interessanti quelle ipotesi che la fisica stessa formula per dare un senso non solo fisico-matematico alle proprie scoperte. Particolare attenzione egli richiama sulla «teoria delle stringhe», o meglio «delle corde», formulata per primo da un italiano, Gabriele Veneziano (p. 236). Queste stringhe, dall’inglese string, sono corde che producono suoni: «Questi suoni non soltanto corrispondono, ma sono quello che noi chiamiamo “particelle”: elettroni, protoni, neutroni e compagnia bella sono tutti modi di vibrazione delle stringhe! E così ritorniamo alla visione pitagorica dell’armonia del mondo e della musica delle sfere, perché l’universo si riduce ai suoni prodotti da un’enorme orchestra d’archi» (p. 290). Valzania coglie la palla al balzo: «Come un prestigiatore, tu estrai ogni giorno dal tuo cappello una dimostrazione scientifica dell’esistenza di Dio. Oggi mi hai proposto l’immagine poetica di questa grandiosa armonia, la sinfonia suonata da stringhe, archi e percussioni, che si trasforma nel mondo, non si sa neanche perché, mentre le mille mani di Dio pizzicano gli archi e battono le percussioni. Che visione! Sembri quasi un predicatore medievale» (p. 290).

Odifreddi è un affermato divulgatore di teorie scientifiche, come quella della relatività e della fisica quantistica, difficilmente comprensibili per i non addetti ai lavori. Nel caso, ad esempio, di quest’ultima, egli fa ricorso alla «storiella delle tre buste», ed arriva così a parlare dell’esperimento, fatto negli anni Ottanta dal francese Alain Aspect, con cui viene confutato il principio fondamentale della fisica classica, quello di «realtà», con il conseguente abbandono della «visione di un mondo fatto di oggetti reali, separati tra di loro, e sui quali non possiamo agire a distanza» (p. 115). Anche in questo caso Valzania ha la possibilità di cogliere nella spiegazione del suo compagno di «Cammino» molta più religiosità di quanto questi voglia ammettere: «Quasi mi commuovono queste dimostrazioni, questi racconti, questi squarci sul sapere fisico, che finiscono quasi sempre con una nuova dimostrazione, non certa ma credibile, dell’esistenza di Dio» (p. 116).

Sarebbe tuttavia erroneo ritenere che i due dialoganti siano, nonostante tutto, complementari quanto al rapporto fra scienza e fede. Odifreddi non vuole saperne di un «dio tappabuchi». Egli ammette i limiti della scienza, ma giustamente rifiuta l’idea che Dio possa costituire il surrogato provvisorio di ciò che la scienza è destinata poi a scoprire con la sola ragione: «Quando si discute di fede e scienza, il fedele punta il dito sulle cose che lo scienziato non può ancora capire, e dice: “Lì c’è la presenza di Dio”. Si tratta di ciò che nel Settecento veniva chiamato letteralmente “il dio tappabuchi”: l’idea, cioè, di trovare nei buchi della spiegazione scientifica le tracce dell’intervento divino. Ma è un atteggiamento molto pericoloso per i credenti perché, man mano che questi buchi vengono tappati dalla scienza, Dio viene respinto sempre più lontano dal mondo e c’è il rischio che alla fine si dissolva» (p. 23). In verità, l’espressione «dio tappabuchi» non è stata usata nel Settecento. Appare la prima volta in Nietzsche in riferimento non ai buchi delle spiegazioni scientifiche ma alla ricerca di una redenzione dell’uomo basata sulla presunta incapacità dell’uomo di redimersi da solo (cfr. Così parlò Zarthustra, I, “Dei preti”). L’espressione «Dio tappabuchi» è stata resa famosa nella seconda metà del Novecento dalla pubblicazione delle Lettere dal carcere del teologo Dietrich Bonhoeffer nel volume Resistenza e resa (Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1988). Nella lettera del 29 maggio 1944 Bonhoeffer scrive all’amico Bethge: «Non dobbiamo attribuire a Dio il ruolo di tappabuchi nei confronti dell’incompletezza delle nostre conoscenze […]. Dobbiamo trovare Dio in ciò che conosciamo: non in ciò che non conosciamo. Dio vuole essere colto da noi non nelle questioni irrisolte, ma in quelle risolte […]. Dio non è un tappabuchi; Dio non deve essere riconosciuto solamente ai limiti delle nostre possibilità, ma al centro della vita; Dio vuol essere riconosciuto nella vita, e non solamente nel morire, nella salute e nella forza, e non solamente nella sofferenza; nell’agire, e non solamente nel peccato […]. Gesù Cristo è il centro della vita, e non è affatto «venuto apposta» per rispondere a questioni irrisolte» (pp. 382-383). Per Bonhoeffer non è dunque necessario professarsi atei per essere scienziati rigorosi. Proprio la fede in Gesù Cristo è anzi uno strumento radicalmente critico nei confronti di ogni idolatria dei propri assunti scientifici, della quale scienziati di ogni tempo sono stati spesso vittime. La fede religiosa non è cieca proprio perché è tenuta a dar prova della propria verità con il rendere il credente capace di costante autocritica. In questo senso si deve dire che la scienza moderna ha radici cristiane.

L’ateo Odifreddi si dichiara disponibile al «dibattito» con il credente, e questo libro ne dà la testimonianza, ma egli esclude la possibilità di un effettivo aiuto reciproco fra credente e scienziato per l’incremento della verità: «A volte gli scienziati, con un atteggiamento di superiorità, sostengono che la loro è la vera religione, nel senso che la Ragione dell’universo è il vero Dio, e il resto è superstizione. I credenti invece sono attratti da visioni più antropomorfiche, per non dire più superstiziose, che si esprimono in termini più comprensibili all’uomo e si interessano di aspetti più vicini all’esperienza quotidiana della vita. Ma rimane il fatto che così avviene il dibattito: non tra chi crede e chi non crede, ma tra chi crede in qualcosa e chi crede in qualcos’altro, o tra chi crede con motivo e chi crede senza motivo» (p. 23).

Per Odifreddi, la fede cristiana è un credere infantile, un surrogato in mancanza di meglio. Non è disposto a riconoscere, forse perché nemmeno conosce, quanto Bonhoeffer ha impresso indelebilmente nella teologia e nella coscienza credente nel corso degli ultimi decenni (si pensi al Concilio Vaticano II): che la verità cristiana vuole ed è in grado di dialogare in modo costruttivo con il «mondo divenuto adulto» (Resistenza e resa, pp. 399-400), con la modernità, con uomini nel pieno delle loro capacità e responsabilità, scientifiche e religiose, personali e sociali.

Odifreddi propone sin dall’inizio un anagramma birichino: «la verità», quanto alle lettere che compongono il sintagma (articolo compreso) equivale sia a «relativa» sia a «rivelata» (p. 45), ossia ai modi inconciliabili con cui la verità viene intesa rispettivamente dallo scienziato e dal credente.

La verità può tuttavia essere proposta in un terzo modo: come ciò che sta veramente dalla parte dell’uomo, che cioè è per il suo vero bene; per questo deve essere una verità capace di rendere «relative» tutte le verità semplicemente umane, non ignorandole, ma spingendole costantemente all’autocritica. Solo se posta davanti a un Trascendente, a Qualcuno che l’uomo non possa in alcun modo ridurre a se stesso, dunque non davanti a un «dio tappabuchi», la ricerca della verità cesserà di essere preda o del relativismo oppure del dogmatismo. Quest’ultimo è il nemico che Odifreddi soprattutto teme, anche a costo di cadere nel relativismo, come appare dal fatto che giunge a proporre un terzo anagramma equivalente de «la verità», ossia: «evitarla!» (p. 62).


Umberto Regina