Mondializzare la responsabilità

 

La gnosi dei primi secoli cristiani prometteva alle anime, fiammelle celesti cadute nei corpi, di lasciare il mondo e di venire riassorbite nell’originaria pienezza di luce (il cosiddetto pleroma); bastava assimilare la dottrina che Cristo aveva portato giù nel mondo: un percorso che prescindeva dalla personale adesione a lui. La mondializzazione oggi è come una gnosi alla rovescia: fa sì il pieno di mondo ma, nonostante la sua esuberante pienezza, soffre di una fondamentale carenza. Essa non riserva alcun posto a chi propriamente esiste nel mondo: all’uomo, che è l’«esser-ci» per definizione. L’uomo, infatti, non lo si può collocare nel tutto come una cosa fra le altre, e nemmeno come la più importante fra di esse; è invece inter-esse, nel senso al tempo stesso ontologico e etico che la scansione etimologica di questo termine consente. È cioè uno stare e restare in rapporto con il tutto senza venirne mai inglobato né potere mai a sua volta appropriarsi del tutto. In ciò l’uomo si rivela come un con-essere con un Altro che, in quanto Trascendente, è il fondamento di ogni con-essere giacché, senza il rapporto con ciò che è irriducibile ad immanenza, sarebbe inevitabile l’esaustiva identità sostanziale del tutto con se stesso. L’essere come inter-esse, invece, preserva ciascun uomo dall’identità con ciò che gli è altro, e così ne fa un’interiorità capace di stare in rapporto anzitutto con il Trascendente e, su questo fondamento, di con-essere con ogni altra interiorità. Per questo il pensiero dell’uomo non è schiavo né del dualismo né del dubbio scettico, ma esiste come passione per ciò che il suo stesso pensiero sa di non poter pensare. Nel punto decisivo di Briciole filosofiche Kierkegaard afferma: «L’intelletto vuole il proprio tramonto; ed ecco che questo tramonto dell’intelletto è voluto anche dal Paradosso, ed in tal senso se la intendono; ma questa intesa [Forstaaelse] è in atto solo nel momento della passione».

A Kierkegaard va riconosciuto il merito di avere fornito - proprio in base a questa «passione» di matrice chiaramente cristiana - una semantizzazione dell’essere nuova rispetto a quella «pagana» introdotta da Parmenide. Non più «l’essere che è e non può non essere» bensì, appunto, l’essere come inter-esse. Già da secoli il paradigma costituito dalla dimensione esistenziale era stato decisivo per l’originalità del pensiero, ad esempio, di Agostino, Pascal, Rosmini, un paradigma che merita di essere annoverato fra le radici cristiane sia della modernità sia del nostro tempo, e che può essere assunto come criterio per valutare quel pieno di mondo che il presente fenomeno della mondializzazione propone: siamo di fronte ad un’autentica pienezza di significato, oppure a un suo surrogato, come fu nel caso della gnosi antica o anche delle gnosi moderne rappresentate dalle ideologie degli ultimi due secoli?

Martin Heidegger – filosofo in giovinezza nutrito di cristianesimo, e forse per questo così polemico verso una cristianità rimasta troppo greca – fece tesoro della conoscenza di Kierkegaard per approntare una concettualità non più basata sul primato della sostanza, bensì sul trascendere esistenziale del singolo uomo nei confronti della totalità degli enti. In Sein und Zeit (1927) poté così qualificare la finitudine umana come «essere-nel-mondo», dunque come soggettività che ha a che fare con il mondo in quanto tale. Nella Vorlesung del 1929/30 egli sostituisce la classica definizione dell’uomo come animal rationale, con questo nuovo approccio concettuale, di grande interesse circa ciò che è umano o disumano nel fenomeno della mondializzazione. Heidegger osserva che anche gli animali hanno certo il loro mondo (ad esempio per le api l’alveare e i fiori del territorio che lo circondano), dal quale ciascuno di loro si trova in situazione di «accalappiamento» [Benommenheit]. Ma l’uomo non viene mai accalappiato da quel mondo che è pur suo; egli stesso anzi lo forma: «Il sasso è senza mondo, l’animale è povero di mondo, l’uomo è formatore di mondo [weltbildend]». L’uomo è ricchissimo di mondo, e lo è sempre, perché altrimenti non sarebbe nemmeno uomo. Al suo confronto l’animale è destinato ad essere e a restare «povero di mondo» [weltarm] perché i suoi comportamenti in ogni caso combaciano con determinate oggettività, non lasciano spazio ad eccedenza alcuna, e tanto meno a rapporti con altri esistenti formatori di mondo, come è invece decisivo per ogni singolo uomo, dato che ogni uomo è ugualmente «formatore di mondo», cioè capace in questo mondo di trascendere quel mondo che gli si vorrebbe imporre, e che egli stesso tenta spesso di imporsi.

In campo missionario si va affermando il termine e il concetto di «mondialità» in vista di un’evangelizzazione convinta dell’intrinseca e inesauribile ricchezza di mondo che sta a fondamento della dignità di ogni uomo, e che fa di ogni uomo il mio prossimo: da amare come me stesso! Questa radice comune, che nutre di mondo tutti gli uomini, consente di considerare ogni altro uomo ugualmente ricco di mondo, e in questo senso ugualmente erede dello stesso mondo: mio fratello! Su questa base, programmaticamente inclusiva, l’impegno missionario può sostanziarsi e giovarsi del dialogo interreligioso e interculturale, e non incorrere nel sospetto di proselitismo esclusivistico. Per poter affermare, con Hobbes, che l’uomo è homini lupus, sarebbe prima necessario negare all’uomo la mondialità, con la conseguenza che lo si dovrebbe pensare povero di mondo, ben più del lupo, certamente quanto a socialità!

Sennonché gli effetti che la mondializzazione sta producendo nel mondo non sono certo espressioni e esempi di fraternità! D’altra parte, non è forse vero che la mondializzazione, introducendo liberalizzazioni che pongono in concorrenza le differenze presenti in tutto il mondo, promuove sviluppo economico e relazioni culturali che arricchiscono tutti e che, infine, sono di incentivo per il riconoscimento dei diritti umani su tutta la terra, e forse anche per l’affermazione universale della democrazia, magari per poter ancora coltivare l’utopia della pace perpetua?

Simone Weil, di fronte alle devastazioni sociali, economiche, ed anzitutto etiche prodotte dalla modernizzazione fra le due guerre mondiali - a suo avviso premessa della vergognosa invasione della Francia da parte di Hitler - si avvalse di un’efficace formula riassuntiva utilizzabile anche per gli sradicamenti prodotti oggi dalla mondializzazione: «Chi è sradicato sradica; chi non è sradicato non sradica»3. Nell’utilizzare la formula della Weil ne prendo prima in considerazione la parte positiva: «Chi è radicato non sradica». Tutti gli uomini e tutti i popoli hanno originariamente radici, tutti sono radicati nella mondialità. Chi dalla mondialità attinge illimitata possibilità di rapporti arricchisce e si arricchisce di rapporti, e così approfondisce e irrobustisce il proprio radicamento; non ha bisogno di sradicare altri, perché ciò significherebbe indebolire e inaridire le proprie stesse radici. Chi invece è stato sradicato è come se non potesse attingere più alla riserva di mondo di cui prima usufruiva, ed allora i suoi rapporti con gli altri cessano di essere veri rapporti, diventano anzi un’insidia da allontanare il più possibile per poter imporre come dominante la condizione stessa di sradicato, quasi fosse conforme a natura. Simone Weil ne trova la conferma teorica nel Mein Kampf di Hitler, e porta come testimonianza storica i Romani, i Tedeschi, la Francia monarchica (nei confronti della civiltà occitana), gli stessi antichi Ebrei (lei ebrea!), popoli sradicatori da altri popoli già sradicati.

Integralismi, ideologie, la stessa mondializzazione, se sciolta dalla mondialità, sono nient’altro che deserto che avanza: «Il deserto cresce! Guai a chi porta deserti in se stesso!» (Nietzsche). Coloro che hanno il deserto in sé non possono che espandere il deserto fuori di sé. Solo con la forza hanno potuto tener lontano da sé le inesauribili proposte di radicamenti e di rapporti con cui la mondialità, che insistono nel rimuovere, non cessa di incalzarli.

Vi può tuttavia essere una forma più subdola di sradicamento: quella che ogni uomo causa in se stesso con lo strumentalizzare le proprie radici alla fissazione della propria identità o, per usare un’immagine ricorrente nella Weil, per continuare ad essere simmetrico con se stesso, cioè riducendo all’identità con sé rapporti che, per essere fecondi, dovrebbero restare asimmetrici, conformemente alla mondialità a cui ogni uomo può attingere ma che non può mai identificare con sé. Sul piano etico è simmetria la «necessità», che fa un tutt’uno del sé e dell’altro da sé; asimmetrica è invece l’«ubbidienza»; è simmetrica l’«immaginazione» in quanto autoreferenziale; asimmetrica è l’«attenzione»; «la forza» è simmetrica, perché non sa far altro che produrre forza e contrapporsi a forza. Le prove dell’esistenza di Dio sono simmetriche, sia se a priori sia se a posteriori. Non è invece simmetrica bensì «sperimentale a priori» (di primo acchito un autentico ossimoro), quell’esperienza interiore che al tempo stesso mi innalza e mi umilia: «Io non ho in me un principio di ascensione [...]. Nessuna perfezione immaginaria può tirarmi in alto neppure di un millimetro. Perché una perfezione immaginaria si trova matematicamente al livello di me che l’immagino».

Questa esperienza portò Simone Weil a riflettere seriamente sul convertirsi al cattolicesimo. Su questa strada trovò l’ostacolo della verità cattolica, a suo avviso esclusiva nei confronti di altre religioni, altre civiltà, altre cristianità condannate come eretiche, ma da lei amate. Ciononostante volle diventare cattolica non di fatto, con il battesimo, ma «di diritto», conformemente alla dinamica inclusiva dell’universalità cattolica, che circa un secolo prima, aveva portato alla conversione l’anglicano J.H. Newman.

Questi trovò in sant’Agostino la formula decisiva: «Securus iudicat orbis terrarum». Cioè, la certezza in materia di ortodossia si ottiene solo se essa si approfondisce e consolida via via nel mondo intero. Quando, convertito, i cattolici inglesi gli palesarono la difficoltà di accogliere il nuovo dogma dell’infallibilità del papa, Newman chiarì che questo dogma, proprio in quanto formulato in forma negativa (in-fallibile), non ne esaurisce l’implicita positività: protegge il papa dal dire il falso ex cathedra, e così accentua la preziosità della sua strategia ecumenica non solo per i cristiani ma per l’umanità tutta. Come la Chiesa di Roma, al tempo di Leone I, era divenuta il luogo dove tutto il mondo cristiano, straziato da scismi e eresie, poté ciononostante pervenire a giusto e unitario discernimento della vera chiesa in modo da procedere securus, così, al tempo del Concilio Vaticano I, si poteva seguire Pio IX in quanto rivendicatore di un’identità non esposta ad alcuna strumentalizzazione: «La Chiesa d’allora, come quella d’oggi, poteva chiamarsi perentoria ed austera, risoluta, altera ed implacabile; e gli eretici erano incostanti, volubili, circospetti e finti, sempre intenti a corteggiare il potere civile, e mai concordi fra loro, se non con l’aiuto di questo [...]. A che serviva farmi avvocato del diavolo con il forte Atanasio e contro il maestoso Leone?».

Newman volle essere cattolico anche di fatto. Lo studio dei Padri, in lotta con gli scismi e le eresie dei primi secoli, lo avevano persuaso che le scissioni non sono conformi all’essenza della chiesa; sono causate da interessi particolari, soprattutto politici. La vera chiesa è là dove essa riesce ad essere unita di fatto in modo da giustificare anche il suo diritto a considerarsi «cattolica».

Cosa possono fare oggi i cattolici italiani di fronte alla mondializzazione? Dietrich Bonhoeffer, in anni tremendi in cui la sua amata Germania era sotto la dittatura di un irresponsabile (così egli lo considerava quando decise di partecipare al progettato tirannicidio), introdusse nella sua postuma Etica il principio della «sostituzione vicaria» [Stellvertretung]: solo il Crocifisso, vincitore di ogni idolo, può porsi al posto dei peccatori per renderli di nuovo responsabili, uomini «adulti», ciascuno nella pienezza del proprio ruolo, davanti al Dio di Gesù. In Cristo e nella sua Chiesa è data oggi ai cattolici la possibilità di mondializzare la responsabilità. Questa è l’«opportunità» che i cattolici italiani oggi non dovrebbero lasciarsi sfuggire, cominciando dal loro interno. Dunque responsabilità reciproca fra pastori e laici, uomini e donne, generazioni diverse, ed anche fra credenti e non credenti dato che, come amava ripetere il card. Martini, «ciascuno di noi ha in sé un credente e un non credente che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa».


Umberto Regina