La “Scienza nuova” di Søren Kierkegaard - Gli atti dell’amore
La “Scienza nuova” di Søren Kierkegaard - Gli atti dell’amore
La filosofia greca ha vinto le mitologie, non le ideologie. Nemmeno la tecnica moderna è stata in grado di avere la meglio su queste; anch’essa opera nell’orizzonte dell’immanenza. Søren Kierkegaard, ammiratore di Socrate ma non della «metafisica», né greca né moderna, colse nell’accadimento cristiano la scoperta che l’uomo è originariamente «rapporto» con il Trascendente, con un Dio che lo trascende in modo irriducibile e al quale, proprio per questo, può «stare davanti», mai facendosi Dio, mai venendo da Dio ridotto a momento della vita del tutto.
Nella sua opera Gli atti dell’amore, sulla quale mi soffermerò nella seconda parte di questo scritto (&& 3-7), il «rapporto-con-Dio» [Guds-Forhold] svolge il ruolo di fondamento dell’«amore del prossimo» e dell’uguaglianza al vertice di tutti gli uomini. Kierkegaard è stato fondamentale per la filosofia e la teologia del Novecento. Il XXI secolo può giovarsi del suo contributo filosofico per un’antropologia e un’etica all’altezza dei problemi della globalizzazione. Su queste basi, in particolare, anche il problema, oggi drammatico, del riconoscimento effettivo dei «diritti dell’uomo» potrà acquisire la forma di un «dovere» che ciascun uomo può e deve assumersi «davanti a Dio» [for Gud].
1. Il bisogno di una seconda etica
Nei manuali di storia della filosofia il pensiero di Kierkegaard viene di solito proposto come sequenza delle tre «sfere-dell’esistenza» [Existents-Sphærer]: «estetica», «etica», «religiosa». Si tratta di sfere, di orizzonti autonomi, non di momenti di una vicenda dialettica idonea a produrre il progressivo «superamento» dell’estetica nell’etica e di questa nella religiosità. Tali sfere sono separate da luoghi di «confine» - rispettivamente l’«ironia» e lo «humor» - sostando nei quali è dato di cogliere l’illegittimità dell’estetica quando solleva pretese etiche, e dell’etica quando tenta di farsi religione. A quest’ultima si perviene solo con il «salto» della fede. Sia l’etica sia l’estetica sono autoreferenziali quanto a contenuti concettuali; in esse ci si può muovere solo restando nell’immanenza, mentre la religione è rapporto del singolo esistente con il Trascendente. L’estetica è solitamente paga di restare nei limiti della sensibilità; non così l’etica. Questa, quando pone all’uomo leggi, doveri, «imperativi categorici», ritiene di liberarlo da ogni condizionamento empirico, e dunque da ogni egoismo. Kierkegaard denuncia, appunto con ironia e humor, la vanità di questa pretesa:
«Kant pensa che l’uomo sia a se stesso la sua legge (autonoma), cioè, che si leghi alla legge ch’egli stesso si è data. Ma con ciò si pone in sostanza, nel senso più radicale, la mancanza di ogni legge e il puro sperimentare. Questa diventerà una cosa così poco seria, come i colpi che Sancio Panza si dà sulla schiena».
Veri doveri non possono essere costruzione umana. Ma Kierkegaard, con ciò, non finisce forse per dichiarare impossibile ogni etica filosofica? Di questo avviso pare essere Vigilius Haufniensis, l’autore pseudonimo de Il concetto dell’angoscia (1844), che nell’Introduzione auspica la venuta di una «seconda etica» («seconda» rispetto alla «prima», quella che, in quanto costruita dal pensare umano, resta autoreferenziale, e per questo incapace di vincere l’egoismo). Questa nuova etica viene da lui espressamente fondata sulla «dogmatica»:
«La nuova scienza [den nye Videnskab] comincia con la dogmatica, nello stesso senso in cui la scienza immanente comincia con la metafisica».
Una «scienza» fondata su una verità rivelata dovrebbe risultare priva di autorevolezza filosofica. E tuttavia proprio la base «dogmatica» di questa seconda etica fa di essa una «scienza nuova»: nuova perché non brancola più nelle tautologie di doveri che l’uomo si dà da sé, ed anche scienza perché la dogmatica le consente di scoprire che l’uomo in quanto tale è capace di «serietà» morale. Si tratta di una scoperta che non sarebbe stata possibile senza l’aiuto della dogmatica ma che, una volta avvenuta, deve essere acquisita al patrimonio della filosofia, costituendo appunto quella «seconda etica» in forza della quale è dato prendere atto della contraddittorietà di ogni etica basata sulle costruzioni «metafisiche» della sola ragione, inevitabilmente segnate dall’«immanenza». La dogmatica è, per così dire, la ratio cognoscendi della nuova etica, mentre è l’uomo stesso nella sua concretezza individuale, «l’esistente» posto «davanti a Dio», la ratio essendi dell’atto morale.
Questa nuova scienza non viene svolta nel Concetto dell’angoscia. Qui Kierkegaard approfondisce il rapporto uomo – Dio dal punto di vista della libertà che Dio stesso dà all’uomo perché possa porsi e stare in rapporto con lui. Si tratta di una libertà talmente radicale che l’uomo viene preso da «angoscia»; davanti ad essa i progenitori preferirono retrocedere: fu «il peccato originale»! I discendenti non furono condannati a peccare per sempre, ma per sempre restarono impegnati a cogliere nell’angoscia - nelle molte e provvidenziali forme che questa assume nei vari individui e nelle varie situazioni dell’esistenza - il richiamo all’uomo a mettersi di nuovo davanti a Dio con tutto se stesso, alla pari, a tu per tu.
Nello stesso anno 1844, solo quattro giorni prima dell’uscita del Concetto dell’angoscia (17 giugno), videro la luce anche le Briciole filosofiche [Philosophiske Smuler]. Qui il rapporto fra l’uomo e Dio si configura come il massimo di trascendenza di Dio rispetto all’uomo, e al tempo stesso come il massimo di apertura dell’uomo rispetto a Dio. E tuttavia questa nuova impostazione, come precisa il sottotitolo, si presenta come «una minuscola filosofia» [En Smule Philosophi]». Non procede certo per dimostrazioni e mediazioni, non è un «sistema»; ma di filosofia comunque si tratta, di un filosofare che cerca l’«urto» con l’impensabile, con «il paradosso», invero con ciò che infiamma il pensare:
«Non bisogna pensare male del paradosso; perché il paradosso [Paradox] è la passione del pensiero, e il pensatore privo del paradosso è come un amante senza passione: un tipo mediocre».
Per il pensiero non vi è nulla di umiliante nel fatto di non potere pensare tutto, dato che ciò è la premessa per potersi aprire con il massimo interesse a ciò che esso non può pensare. Il paradosso «assoluto», il paradosso cristiano di un Dio che si fa veramente singolo uomo, dell’Eterno che accade in un tempo determinato, fa scoprire ad ogni singolo uomo che egli può in ogni momento porsi a tu per tu con l’Eterno, con l’Onnipotente, con Dio stesso. Sempre nelle Briciole filosofiche lo pseudonimo Climacus propone un «esperimento poetico», invero un esperimento tutt’altro che «estetico».
Si immagini che un re (Dio), nel pieno della sua magnificenza, si innamori di una ragazza di umile condizione (la creatura umana). Quando tutto è pronto per il fastoso matrimonio, il re viene preso da una «preoccupazione»: la ragazza penserà, forse, di essere stata semplicemente «fortunata» per essere stata scelta dal re? In questo caso lei si riterrà propriamente non degna di venire tanto elevata; e un giorno – teme il re - potrebbe addirittura rimpiangere di non aver potuto fruire dell’amore di qualcuno della sua stessa condizione. Il re non può rassegnarsi al pensiero che nel cuore di lei possa insediarsi un tale insidioso ed invincibile rivale, e non vorrà assolutamente, per evitarle un tale rimpianto, farle dimenticare le sue umili origini: non solo non sarebbe degno di lui ingannarla, ma soprattutto ciò andrebbe proprio contro il fatto che lui la ama come lei era e deve restare:
«Anche se la ragazza fosse contenta di diventare un nulla, questo non potrebbe rendere contento il re, appunto perché egli l’ama, e perché sarebbe per lui più gravoso essere il suo benefattore che perderla».
Nel racconto di Climacus torna a più riprese il termine «naturalezza» [Frimodighed], ad indicare la qualità della ragazza che il re non vuole che venga assolutamente compromessa dal suo essere stata elevata alla dignità regale. Non si tratta di una dote che lei possiede e altre ragazze no, ma di qualcosa che resta intatto a prescindere da povertà o ricchezza, o da qualsiasi altra differenza fra ragazza e ragazza. Proprio per evitare che qualche differenza estrinseca alla sua dignità umana possa incrinarne la naturalezza, il re dovrà allora abbassarsi a lei, umiliarsi, diventare un «servo», ma non dovrà per questo travestirsi da servo; dovrà invece diventare realmente servo, alla pari di lei.
Sennonché in tal modo la preoccupazione del re aumenterà: riuscirà la ragazza a capire che è proprio lei, con tutta la sua «naturalezza, colei di cui il re-servo si è innamorato? Non proverà «scandalo» di fronte a un tale «paradossale» pretendente? Il re non finirà per renderle impossibile mantenere proprio quella tanto preziosa naturalezza?
Qui Climacus si interrompe come narratore, ma continua nell’analisi di ciò che accadde nel cuore di quel Dio che si fece realmente servo per amore della creatura umana per comunicarle, come divino Maestro, verità e salvezza. Un tale Dio sa bene che il suo presentarsi da servo è «scandaloso» per il discepolo, ma non può fare a meno di comportarsi così, perché l’amore esige che il discepolo e il Maestro stiano realmente seduti vicino, alla pari:
«È meno terrorizzante cadere a faccia in giù quando i monti tremano davanti alla voce di Dio che non sedere accanto a lui come suo uguale, ed appunto la preoccupazione di Dio è di sedere accanto in questo modo».
L’amore di Dio è dunque destinato al fallimento? Se non c’è «comprensione» fra i due che stanno vicini, se c’è «fraintendimento», e se ciò appare inevitabile, siamo forse allora di fronte a un «amore infelice» fra Dio e l’uomo? Certamente! Ma l’amore di Dio continua, seppure nel dolore. La sua «afflizione» è incomprensibile per l’uomo che si scandalizza di lui; e ciò è inevitabile se si considera che solo Dio, l’Onnipotente, può patire il dolore di lasciare che la creatura amata vada in rovina. Perché proprio questo tremendo esito risulterebbe inevitabile se l’uomo, con lo scandalizzarsi davanti al Paradosso, si chiudesse in se stesso e, da egoista, perdesse la sua naturalezza, e con questa anche la verità e se stesso:
«Tutto il linguaggio umano è così egoista che non può avere l’idea di una simile afflizione. Ma perciò Dio ha riservato a sé l’insondabile afflizione di sapere che può respingere da sé il discepolo […]. Chi non è in grado di avere l’idea almeno di questa afflizione, ha un’anima abietta, ha qualcosa che non è altro che una moneta che non reca l’immagine né di Cesare né di Dio».
Se un Dio, per amore della «naturalezza» dell’uomo, ossia della sua libertà, che egli non vuole nemmeno minimamente condizionare con la sua divina onnipotenza, è disposto a soffrire senza limiti, sino al punto di perderlo per sempre, pur continuando ad amarlo, allora vuol dire che ci troviamo davanti alla vittoria dell’Amore stesso non solo sul dolore, ma anche sulla morte dell’amore. Solo un Dio che è l’Amore può affrontare un amore che è dolore senza fine. Muore per un amore che vince la morte. La croce di Cristo esprime il dolore che solo il Dio che è l’Amore poteva assumersi:
«Oh, amaro calice; per i mortali l’obbrobrio della morte è ben più amaro dell’assenzio; quanto amaro sarà allora per l’Immortale! Oh, quanto è acida quella bevanda, più acida dell’aceto, se ha da togliere la sete del fraintendimento dell’amato! Oh, è una consolazione quando si soffre da colpevoli; quale consolazione sarà mai allora il soffrire da innocenti! [Trøst i Nøden at lide skyldig, hvorledes da at lide uskyldig!]».
La bella fiaba «tentata» da Climacus nelle Briciole filosofiche non ha un lieto fine - ma non finisce. Se il soffrire da innocenti non prevede consolazione alcuna dal punto di vista umano, esso, dal punto di vista divino, ottiene la consolazione del durare infinito dell’amore da parte di chi è l’Amore. C’è uno squilibrio incolmabile, sul piano della consolazione, fra il soffrire dell’innocente e quello del colpevole. Questo, come il Buon ladrone della narrazione evangelica, può trovare consolazione per il fatto che subisce ciò che si merita. Ma Gesù, l’Innocente, potrà mai trovare consolazione?
2. L’impianto concettuale per la nuova etica
L’«etica» non può non scandalizzarsi di fronte a chi ricambia il male con il bene. Ma da questo scandalo la filosofia potrà guadagnare una preziosa «briciola» per avanzare con le sue forze, purché aiutata dallo «scandalo» a scoprire di averle. L’impresa lasciata incompiuta dal Climacus delle Briciole di filosofia (1844), viene portata a compimento tre anni dopo, non più da uno pseudonimo, ma da Søren Kierkegaard autore esplicito de Gli Atti dell’amore (1847).
Della difficoltà del cammino per giungere a cogliere che l’uomo è capace di ricambiare il male con il bene, senza limiti, dunque di compiere atti di amore, troviamo già tracce importanti nelle opere intermedie, ancora pseudonime, particolarmente negli Stadi sul cammino della vita, del 1845, e nella Postilla conclusiva non scientifica alle “Briciole filosofiche” (1846). La prima contiene, fra l’altro, il dialogo In vino veritas, nel quale i cinque commensali concordano, pur con argomenti diversi, nel farsi beffe della donna e del matrimonio. Come replica segue un vero e proprio trattato, le Considerazioni varie sul matrimonio in risposta a delle obiezioni da parte di un marito, opera dello pseudonimo giudice Vilhelm.
Qui l’amore sponsale viene celebrato con considerazioni di grande elevatezza etica. Nel finale, tuttavia, il giudice stesso, marito entusiasta ed esemplare, prospetta la possibilità di un’alternativa non solo all’amore sponsale, ma agli stessi doveri di marito, padre e cittadino, una possibilità che è un’alternativa radicale alla stessa etica (beninteso la «prima» etica). Questa ha come riferimento «il generale», ossia i fini e la norme che valgono su base «metafisica». Ma – pensa Vilhelm – proprio perché «generale», l’etica non può escludere «l’eccezione», ossia la decisione di uno sposo di abbandonare la moglie adorata e i figli diletti per seguire quella che potrebbe essere una chiamata «religiosa», ma che potrebbe anche essere una sua fantasticheria o un inganno. Osserva che per essere «legittima» questa «eccezione» (questo sposo e padre) dovrebbe non solo sentire straziante il distacco dai suoi affetti ma anche privo di ogni riscontro l’attribuire a Dio la chiamata religiosa:
«Allora soccombe, nella disperazione della sua infelicità, quando gli viene a mancare quell’unica parola, l’ultima, l’estrema, così estrema da trovarsi al di là del linguaggio umano; quando non lo abita la testimonianza, quando non può forzare il dispaccio sigillato da aprire solo in alto mare e che contiene l’ordine di Dio».
L’eccezione è possibile - perché tutto ciò che è generale la presuppone, ne ha anzi bisogno, anche se non la ama - ed è «generale» ogni norma etica, che in fondo desidera le eccezioni. Tuttavia l’etica accetta solo quelle «legittime» - legittimate dall’etica stessa! Come uscire da questo circolo?
Nel 1846, l’anno successivo all’uscita degli Stadi sul cammino della vita, Kierkegaard pubblica la grande Postilla alle «Briciole di filosofia». Qui ancora Climacus, tenendo implicitamente conto dell’incompatibilità che il giudice Vilhelm pone fra i doveri familiari (nei quali si impersona l’etica tutta) e la scelta religiosa (il Paradosso delle Briciole), introduce tre importanti novità concettuali a favore di questa:
1) La semantizzazione dell’essere come inter-esse;
2) La verità come «incertezza oggettiva»;
3) La possibilità dell’«incontro nel tempo con l’Eterno-nel-tempo».
Queste tre novità costituiscono la base per ciò che Kierkegaard stesso proporrà in Gli atti dell’amore come quell’etica che non solo non va sacrificata alla scelta religiosa, ma che ne rappresenta la stessa attuazione nel mondo. Questi tre elementi non compaiono improvvisamente nella Postilla, ma solo qui appaiono strettamente collegati fra loro, e costituiscono così la trama teoretica sulla cui base la «seconda etica» (progettata nel Concetto dell’angoscia ma qui non menzionata come tale) si concretizza nell’indicazione degli atti ad essa conformi: appunto gli atti dell’amore.
Già nell’agosto del 1835, un Kierkegaard appena ventiduenne, durante una villeggiatura a Gillileje, la punta più settentrionale dello Sjælland, aveva deciso di votarsi a una verità che fosse «una verità “per me”». In ciò non vi è affatto cedimento soggettivistico, bensì l’idea di una verità che per essere tale deve preoccuparsi anzitutto di stare dalla mia parte, cioè di volere il mio vero bene e di farmi conoscere come stanno veramente le cose per tutto quanto veramente mi riguarda. Dunque una verità non oggetto di contemplazione disinteressata, e per questo astratta, ma concretamente tenuta in costante rapporto con l’interesse di chi la cerca per poterne fruire secondo verità e per amore della verità. È importante notare che nella Postilla il termine «interesse» [anche in danese: Interesse, dal latino come in italiano] viene dalla lineetta intermedia scandito in preposizione e verbo: inter-esse, e in tal modo assume al tempo stesso portata ontologica ed antropologica:
«L'esistere è per l'esistente il supremo interesse [Interesse] e l'interessamento all'esistere è la sua realtà. Ciò in cui consiste la realtà non può essere esposto nel linguaggio dell'astrazione. La realtà è un inter-esse [sic] che sta nel mezzo [mellen] dell'ipotetica unità di essere e pensiero».
L'inter-esse fa stare insieme i diversi, li tiene distinti nel loro comune interesse a differire, appunto perché ugualmente interessati a stare in rapporto. L'interesse è il fondamento e la garanzia di ogni vero rapporto. Non vi è rapporto senza differenza, ed è proprio l’interesse che garantisce il rapporto sia dall’implodere nell’identità dei due, sia dal suo svanire nell’indifferenza. Se l’interesse salva il rapporto, e se il permanere del rapporto salva l’essere dei differenti che si rapportano, allora l’interesse è garanzia ontologica. Un vero rapporto è anche la verità di coloro che si rapportano. È una verità che deve essere costantemente guadagnata nei confronti dell’identità e dell’indifferenza (che ontologicamente si equivalgono quanto a insidia nichilistica). L’interesse in quanto inter-esse introduce dunque a una nuova concezione della verità. Non più adaequatio dell’intelletto alla cosa, bensì «interiorità», appropriazione di sé nell’interesse «appassionato» per il «mantenimento» dell’alterità dell’altro da sé:
«La verità è l'incertezza oggettiva [den objektive Uvished] mantenuta nell'appropriazione della più appassionata interiorità, e questa è la verità più alta che ci sia per un esistente».
L’uomo è colui che si interessa appassionatamente di mettersi e di restare in rapporto con tutto e tutti, ma anzitutto con Dio. Per questo Anti-Climacus, lo pseudonimo autore della Malattia per la morte, già all’inizio di quest’opera definisce l’uomo: «Un rapporto che si rapporta a se stesso, e nel rapportarsi a se stesso si rapporta a un Altro». Questo Altro è Dio «che ha posto l’intero rapporto».
Il rapporto con Dio, essendo per sempre, è innervato dall’eternità, come lo è ogni vero rapporto. Ma l'uomo si trova circondato da «eterni» (idee, concetti, leggi, valori, totalità, universali, sistemi, ideologie, ecc.) da lui prodotti, e che come tali non esprimono il suo costitutivo stare in rapporto con il Trascendente. Questi eterni distraggono l’uomo da se stesso in quanto esistente nel tempo: sono alienazioni. L’uomo ha certo bisogno di rapportarsi a questi «eterni» concettuali per dar senso al proprio esistere, ma questo rapporto sarebbe la sua fine se il senso dell’esistenza fosse pagato con il fare astrazione, in nome di questi «eterni», dalla propria esistenza in quanto singolo, che è un esistere nel tempo. Kierkegaard, già nella sua tesi di laurea, Il concetto di ironia in costante riferimento a Socrate (1841), aveva posto in evidenza il problema di questo conflitto fra il bisogno di eterno e l’esistere temporale. Socrate preferì vivere e morire da ignorante, perché così era almeno certo di essere se stesso, piuttosto che essere un sapiente di cose eterne che a tal fine deve dimenticare di essere esistito nel tempo. Da qui l’ironia socratica venata di malinconia.
L’accadimento cristiano segnò il tramonto della «posizione socratica». Con la venuta nel tempo da parte dell’Eterno-nel-tempo [det Evige i Tiden], l'esistente non ebbe più bisogno di dimenticarsi del proprio esistere temporale per fruire della verità eterna; non dovette più isolarsi nell'immanenza della propria soggettività ed avere un'identità impersonale. Ora l'eternità è «fra» l'esistente e lo stesso Eterno. Se già le Briciole definivano il Paradosso come la «passione del pensiero», ora la Postilla apporta a tale formula un importante arricchimento. Il Paradosso è l'Eterno-nel-tempo che l'esistente effettivamente incontra nel proprio tempo, momento per momento. Il Paradosso ora è l'Eterno che gli dà la forza di rompere in ogni momento la propria solitudine, e che lo colloca in ogni momento in sintonia con una storia che scaturisce dalla libertà propria, dalla libertà degli altri, ed anzitutto dalla libertà di Dio. Ora il Paradosso, che nelle Briciole veniva presentato negativamente come «ciò che non si può pensare», entra in gioco con un ruolo decisivo per consentire all'esistente di pensare di più:
«Quindi il cristiano credente ha e usa la propria intelligenza [Forstand] […]. Egli usa l'intelligenza tanto meglio [saa meget], in quanto attraverso ad essa diventa attento all'inintelligibile [det Uforstaaelige], ed allora si rapporta a questo credendo contro l'intelligenza».
La semantizzazione dell’essere in quanto inter-esse, la concezione della verità quale «incertezza oggettiva», e «l’incontro nel tempo con l’Eterno-nel-tempo» sono le tre novità concettuali che innervano l’impianto filosofico della Postilla, e che fornirono a Kierkegaard la possibilità di proporre un’etica radicalmente diversa da quella precedentemente collocata nella «sfera etica».
3. La determinazione che sta in mezzo a ogni amore
Nel 1847, l’anno successivo alla Postilla, Kierkegaard può così pubblicare Gli atti dell’amore. Nel libro, «amore» è detto in danese con due diversi termini: Elskov e Kjerlighed. Nel titolo, Kjerlighedens Gjerninger, compare solo il secondo termine al genitivo determinato. Kjerlighed è l’amore in quanto «atto» compiuto da chi è mosso da nient’altro che dall’amore stesso, cioè da quell’amore che è in grado di vincere l’egoismo anche quando questo si sublima nelle forme del più convinto altruismo. Elskov è l’«amore affettivo», è quell’amore nel quale l’oggetto dell’amore è interno alla sfera affettiva di chi ama, il cui amare, dunque, anche nelle forme più eroiche, non è in grado di oltrepassare la sfera della «prima» etica, inevitabilmente egoistica in quanto iniziativa del solo soggetto. Per questo Kierkegaard fa sua la sentenza di Agostino e dei Padri: «Le virtù dei pagani», alla luce degli atti dell’amore cristiano, sono solo «splendidi vizi».
L’amore del prossimo, proprio solo del filone ebraico-cristiano, è la vittoria radicale sull’egoismo, e come tale è l’atto d’amore che sta alla base di tutti gli altri atti d’amore. Questa vittoria non sarebbe stata possibile senza la scoperta del «prossimo», e questa a sua volta non sarebbe stata possibile senza la rivelazione ebraico-cristiana:
«Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai sorsero in cuore d’uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1 Cor 1, 9).
È un asserto di fede, ma conferisce al credente un inesauribile potenziale critico e autocritico nei confronti di ogni immanenza. In Gli atti dell’amore, per indicare il ruolo etico di Dio, Kierkegaard usa l’espressione Mellembestemmelse, alla lettera: la «determinazione-che-sta-in-mezzo». Dio sta realmente in mezzo fra i poli di ogni vero rapporto umano proprio perché a lui ci si può rapportare solo in quanto egli trascende in modo irriducibile tutto ciò che sta in rapporto con lui: il «rapporto-con-Dio» [Guds-Forhold] è originario e originante per ogni altro rapporto. Senza Dio in quanto «determinazione-che-sta-in-mezzo i membri di ogni rapporto finirebbero per formare un solo essere, per implodere nell’identità-indifferenza del tutto. Senza il rapporto-con-Dio gli amanti non riuscirebbero a mantenersi in rapporto, e dunque non potrebbero nemmeno amarsi davvero. Solo un Dio di irriducibile trascendenza ha potuto «preparare per coloro che lo amano» qualcosa di inaudito e mai visto, come è la possibilità per l’uomo di compiere atti irriducibili all’egoismo. Proprio questi atti dovrebbero costituire il contenuto della «scienza nuova». Resta però da chiedersi se questi atti esistono effettivamente, e se sono come tali anche riconoscibili.
4. Mutamento, elasticità e legame dell’eternità
Kierkegaard, nella Premessa de Gli atti dell’amore, ripetuta all’inizio di ciascuna delle due Serie - e per questo rivelativa della preoccupazione dell’Autore di non vedere sprecata la sua fatica di scrittore – porge all’eventuale lettore un avvertimento sibillino ma che risulterà poi prezioso:
«Queste riflessioni cristiane, che sono il frutto di molta meditazione, vorrebbero essere capite lentamente, ma allora anche facilmente [ville forstaaes langsomt men da ogsaa let], mentre certo diventerebbero molto difficili se uno le rendesse tali con una lettura fuggevole e curiosa».
Gli atti dell’amore vanno letti lentamente, non perché siano scritti in modo difficile. Al contrario, le argomentazioni sono costantemente accompagnate da esemplificazioni avvincenti e da osservazioni psicologiche e sociologiche realistiche ed attuali. La difficoltà sta nell’afferrare e tenere costantemente presenti alcuni ardui ma imprescindibili accostamenti concettuali: anzitutto, il «mutamento dell’eternità» [Evighedens Forandring], che Kierkegaard introduce per comunicare al lettore ciò che è proprio di ogni atto d’amore, che cioè l’amore, che presuppone incondizionata libertà, sia anche un «dovere» che obbliga per sempre, anche e innanzitutto a prescindere dalla reciprocità:
«Quell’amore che ha sperimentato il mutamento dell’eternità con il diventare dovere, sente certamente un bisogno di essere amato, e questo bisogno è pertanto in eterno armonioso accordo con questo «devi», ma se così deve essere, questo amore può fare a meno di venire amato, mentre ciononostante esso continua ad amare».
Capire «velocemente» cosa significa «mutamento dell’eternità» vuol dire passare velocemente oltre ciò che appare una contraddizione. Capirla «lentamente» vuol dire ampliare l’orizzonte del proprio comprendere sino a cogliere l’eternità come l’unico criterio per orientarsi e muoversi agilmente nel mondo del divenire:
«Un attrezzo che venga usato da un artigiano si logora con il passar degli anni, la molla perde la sua elasticità, si indebolisce; ma ciò che possiede l'elasticità dell’eternità [Evighedens Spændkraft] la mantiene del tutto intatta attraverso tutti i tempi. Se un dinamometro viene usato a lungo, alla fine anche un debole può superare la prova, ma la misura dell’eternità [Evighedens Kraftmaal] con cui ogni uomo viene messo alla prova: se vuole o non vuole avere fede, resta del tutto immutata in ogni tempo».
Capire gli atti dell’amore vuol dire anche capire che l’eternità non è evasione ma strategia vittoriosa già in questo mondo. Questo viene in luce già nel primo dei 18 Discorsi che compongono Gli atti dell’amore, intitolato «La vita nascosta dell’amore e la sua riconoscibilità dai frutti». Il Vangelo afferma che l’amore è come l’albero; lo si riconosce dai suoi frutti (cfr. Mt 13, 13-15). Come ogni buona strategia, anche quella dell’amore deve saper restare nascosta. Ciò che conta è:
«Lavorare affinché [il nostro amore] possa essere riconosciuto dai frutti, a prescindere dal fatto che questi vengano poi riconosciuti o no dagli altri».
È il singolo l’albero che dovrà fare di tutto per essere un albero buono, per produrre frutti buoni, da cui si possa riconoscerlo come buono:
«Ciò che il profeta Nathan aggiunse alla parabola: “Tu sei quell’uomo”, il Vangelo non ha bisogno di aggiungerlo […]. Non parla a te, mio ascoltatore, su di me, o a me su di te; no: quando il Vangelo parla, parla al singolo, non parla su noi uomini - tu e io - ma parla a noi uomini, a te e a me, e parla su questo: che l’amore deve essere riconosciuto dai frutti».
Se è l’albero che deve anzitutto essere buono, se i frutti sono solo la conseguenza della sua bontà, c’è tuttavia un suo frutto preziosissimo di cui lo stesso albero buono potrà subito e incessantemente fruire per preservare la sua bontà da ogni inquinante condizionamento: l’amore non potrà essere falso con se stesso, non potrà essere ipocrita. Ma non per questo dovrà anche essere uno scopritore di ipocriti. Il suo compito è solo di amare, a prescindere dal riconoscimento altrui e dallo stesso venire corrisposto in amore. Gli ipocriti non potranno coinvolgerlo nella loro ipocrisia:
«La difesa migliore contro l’ipocrisia è l’amore; anzi non è semplicemente una difesa, ma il porre in mezzo un abisso, perché esso non ha nulla a che fare con l’ipocrisia, per tutta l’eternità. Anche questo è un frutto da cui l’amore viene riconosciuto: che cioè assicura la persona in cui è amore dal cadere nel laccio dell’ipocrita».
L’uomo è «rapporto», e ciò si palesa nella sua capacità di porsi in rapporto sia con il tempo sia con l’eternità, senza mai identificarsi con l’uno o con l’altra. Proprio il dovere di amare, di amare per sempre, è quel legame senza il quale l’uomo sarebbe condannato all’identificazione con la temporalità, come accade nella scelta «estetica», o con gli eterni costruiti dall’uomo, come accade nella scelta «etica». L’uomo è anzitutto «rapporto-con-Dio». Il dovere di amare traduce in atti di amore l’intimità con la trascendenza di Dio:
«Che cos’è infatti che unisce il tempo e l’eternità, che cos’è se non l’amore, che proprio per questo è prima di tutto e resta quando tutto è passato? E però proprio perché l’amore è in tal modo il legame dell’eternità [Evighedens Baand], e proprio perché tempo e eternità sono dissimili, per questo l’amore può sembrare un peso alla saggezza terrena concernente ciò che è temporale, e per questo nel tempo all’uomo sensuale può sembrare che il disfarsi di questo legame dell’eternità sia un enorme alleggerimento».
Il dovere di amare libera l’esistente dall’immanenza, e dunque dall’«autoinganno» in cui egli cade quando ritiene di realizzare se stesso scegliendo la sfera estetica o quella etica.
5. Il dovere di presupporre nel prossimo la presenza dell’amore
Ma come sarà possibile per l’uomo porsi e restare in rapporto con un Dio che lo trascende? La risposta è di una semplicità sconcertante. Basterà che l’uomo «presupponga» che il Trascendente lo ami e per questo voglia stargli accanto come «determinazione che sta in mezzo» in ogni rapporto con il prossimo. Presupporre l’amore di Dio vuol dire presupporre la presenza dell’amore nel prossimo. L’amore «edifica» la parità fra l’uomo e Dio, di per sé separati da una «differenza infinita», e fa di ogni altro uomo il «prossimo». Solo fra i differenti è possibile l’amore, solo l’amore sa negare fino in fondo l’identità perché vuole ad ogni costo la parità. Solo l’amore, non l’estetica non l’etica, sa costruire amore, con il solo presupporlo nell’amato:
«L'architetto può esibire il suo lavoro e dire «è opera mia», e il maestro può additare il suo discepolo; ma l'amore che edifica non ha nulla da additare, poiché il suo lavoro consiste proprio nel semplice presupporre. Pensare questo è, ancora una volta, tanto edificante. Poni che a chi ama riesca di edificare l'amore in un altro uomo; quando l'edificio si erge compiuto, ecco che egli si mette in disparte, per suo conto, e dice umilmente: “Io l'ho sempre presupposto”. […] Chi ama lavora tanto calmo e sereno, eppure qui sono all'opera le forze dell'eternità [Evighedens Kræfter]; l'amore, umilmente, non si fa notare proprio quando lavora di più; sì, lavora, ma è come se non facesse nulla».
L’amore, se presupposto, dà a chi ama tutte le forze necessarie per vincere l’egoismo. Per questo il precetto cristiano: «Ama il prossimo come te stesso» è formulato dall’Evangelo in modo tale da porre a disposizione di chi ama nientemeno che il suo stesso egoismo:
«Che meraviglia! Si possono certo tenere ampi ed acuti discorsi sul come un uomo debba amare il suo prossimo; ma l’egoismo, dopo che li ha uditi, potrebbe ancora inventare scuse e trovare scappatoie […]. Ma questa parola, “come te stesso” — sì, nessun lottatore è capace di avvinghiare chi sta lottando con lui così come sa fare questo precetto con l’egoismo, immobilizzandolo».
Riuscirà l’amore ad immobilizzare anche quel residuo egoismo, quella disparità che si nasconde nel trionfo stesso del bene sul male? Basterà, ad esempio, che io vinca il male per mio conto ricambiando sempre con il bene il male ricevuto, dimenticandomi di chi io ho vinto con questo mio ineccepibile stare dalla parte del bene? Insomma, amerò davvero il mio prossimo come me stesso se mi fermerò all’orgoglio di avergli resistito nel ricambiare male con bene, e nell’averlo così umiliato nella sua pretesa di indurmi a venir meno al precetto? L’avrò davvero amato come me stesso?
Nel Discorso «La vittoria dello spirito di conciliazione che nell’amore guadagna il vinto», prendendo spunto da quel «più che vincere» che Paolo rivendica al cristiano (Rm 8, 37), Kierkegaard, nella lotta fra il bene e il male, distingue una «prima vittoria», quella appunto di chi non cede nel ricambiare il male con il bene, da una «seconda vittoria», quella, ben più difficile, che il vincitore della prima è tenuto a perseguire, se vuole davvero amare il prossimo, il vinto, come se stesso, il vincitore. A tal fine egli dovrà nientedimeno che con-vincere il vinto alla causa del bene. Questa seconda vittoria, senza la quale anche la prima resterebbe alla mercé dell’egoismo (dato che il vincitore potrebbe facilmente inorgoglirsi e per questo di fatto umiliare il vinto), non potrà essere conseguita se non interverrà un Terzo, se cioè chi ama attribuirà la prima vittoria non a sé ma al «rapporto-con-Dio». Davanti a Dio non c’è posto per l’orgoglio, dato che davanti a Dio vincitore e vinto devono ugualmente umiliarsi. Ed allora colui che ha vinto attingendo alle «forze dell’eternità» potrà essere infinitamente inventivo nell’escogitare comportamenti idonei a con-vincere il vinto:
«Supponiamo che il fratello del Figliol Prodigo fosse stato pronto a fare tutto per il fratello – ma una cosa non gli sarebbe mai venuta in mente: che il Figliol Prodigo dovesse essere la persona più importante. Orbene, è difficile anche solo mettersi in testa tale idea; l’uomo non ce la fa a pensarla».
È probabile che il vinto, divenuto assolutamente «importante» per il vincitore, senta il bisogno di chiedere perdono al vincitore. Ma se questo accettasse di perdonarlo si riprodurrebbe la differenza fra i due. Che fare allora perché l’amore del prossimo possa ottenere la «seconda vittoria», quella decisiva? Il vinto dovrà chiedere perdono, ma il vincitore non vorrà sentir parlare di perdono da dare. Fra i due si produrrà allora un dialogo privo di sbocchi, apparentemente senza senso, perché il vincitore non risponderà alla domanda di perdono, ma chiederà il suo amore, la stessa cosa che in fondo chiede anche il vinto:
«Certamente passerà ancora un certo tempo in cui fra di loro ci si alternerà nel chiedere, da parte dell'uno: “Mi hai ora perdonato realmente?” e, da parte dell'altro, nel rispondere: “Mi ami ora realmente?”. Ma, vedi, nessuno, nessuno può tener testa a uno che ama, nemmeno chi invoca perdono, che alla fine perderà l'abitudine di domandare circa il perdono. Così ha vinto lui, colui che ama, giacché ha guadagnato il vinto».
Non è data alcuna «certezza oggettiva» di questa seconda vittoria. Ma proprio così è garantita a chi ama «l’appropriazione della più appassionata interiorità». Egli infatti avrà perseverato nel ricambiare con il bene il male ricevuto (prima vittoria), ma avrà anche continuato a presupporre amore nell’altro (seconda vittoria). Infatti, da un punto di vista strategico, la «seconda vittoria» sta dalla parte di chi presuppone amore nell’altro. È una certezza che non ha bisogno della conferma dei fatti perché si basa sulla capacità, che ha solo chi ama, di guardare più lontano di ogni possibile accertamento «oggettivo», e di riconoscere così l’amore nell’altro anche quando dall’altro questa presenza viene più insistentemente nascosta:
«Il criterio di riconoscimento ultimo dell’amore, il più beato, incondizionatamente il più convincente, resta pertanto: l’amore stesso che viene conosciuto e riconosciuto dall’amore presente in un altro. Il simile viene conosciuto solo dal simile; solo chi rimane nell’amore può riconoscere l’amore, ed allo stesso modo il suo amore può essere riconosciuto».
Aver fede nell’amore non è dunque un arbitrario tener per vero qualcosa che non offre alcuna garanzia, ma un farsi tenere dall’amore di un altro, ed innanzitutto dall’amore di quell’Altro, Dio, che ha «posto» l’uomo come rapporto e non come sostanza chiusa in sé. Il «come te stesso» del comandamento cristiano ha come misura il proprio io, dunque il proprio interesse, ma nel senso che questo io è inter-essente con il prossimo, ed anzitutto con Dio, che è l’inter-essente che sta a fondamento di ogni vero interesse:
«Amare Dio è in verità amare se stessi;
aiutare un altro uomo ad amare Dio è amare un altro uomo;
venire aiutati da un altro uomo ad amare Dio è essere amati».
Su questa base Kierkegaard può passare all’analisi di alcuni atti dell’amore particolarmente rivelativi della capacità dell’uomo di compierli, proprio là dove l’amore pare predestinato alla disillusione, se «presuppone» la presenza dell’amore negli altri.
6. Amare nonostante tutto
Il titolo del secondo Discorso della II Serie, «L’amore crede tutto – eppure non viene mai ingannato», enuncia una tesi manifestamente controfattuale, e appunto per questo, se convalidata, particolarmente probante. San Paolo, nell’inno all’amore contenuto nella Prima Lettera ai Corinzi (13, 7) afferma che «l’amore crede tutto». Questo può certo essere possibile; ma è forse anche possibile asserire, come si accinge a sostenere questo Discorso, che allora l’amore non viene mai ingannato? Quante volte l’amore è stato tradito! Eppure le possibilità di venire ingannati in amore sono, sul piano puramente conoscitivo, del tutto uguali a quelle di non venire ingannati; dare la prevalenza a una possibilità sull’altra è un atto di fede o di diffidenza, non è un’operazione intellettuale:
«Il conoscere pone tutto nella possibilità e, nella possibilità, è conseguentemente fuori dalla realtà dell'esistenza; solo con l'ergo, con la fede comincia la vita del singolo».
Il diffidente si trattiene nella possibilità, ma così rinuncia a credere nell’amore, a «presupporre amore», ed allora si inganna da sé su di sé circa la capacità, che ha, di compiere l’atto di amore di credere a tutto. Teme l’inganno e così inganna se stesso:
«Nella rappresentazione infinita dell'amore, il venire ingannato significa esclusivamente smettere di amare, venire indotti ad abbandonare l'amore in sé e per sé, e dunque perdere la sua beatitudine in se stessa. Infatti, da un punto di vista infinito, è possibile solo un inganno, l'autoinganno».
Chi non crede nell’amore, o vi crede ma solo fino a un certo punto, non fa il proprio vero interesse perché si priva da sé della possibilità di essere inter-essente con il suo prossimo, ed anzitutto con Dio. Si autoinganna circa il suo essere un rapporto che si rapporta a sé in quanto si rapporta a un Altro che «infinitamente» lo trascende.
Un atto di amore nei confronti del prossimo altrettanto audace del credere tutto è quello di sperare tutto. Anche in questo caso si tratta di andare contro l’«oggettività» dei fatti. Come sperare qualcosa di buono da chi finora non ha fatto che del male? Eppure, come ancora Paolo afferma nel suo inno all’amore, «L’amore spera tutto» (1 Cor 13, 7). Kierkegaard, nel titolo del Discorso che prende l’avvio da queste parole, completa le parole dell’Apostolo aggiungendo che questo sperare tutto il bene dal nostro prossimo, nonostante tutta la sua malvagità, «non tornerà mai a vergogna» di chi si è arrischiato a sperarne il ravvedimento. Chi spera tutto non pone limiti alla speranza nel bene. Ha infatti l’eternità dalla sua:
«Chi ama — quale gioia per lui osare sempre sperare; quale gioia per lui poter disporre della garanzia dell'eternità: che c'è sempre speranza. Giacché chi ama, chi ama davvero, non spera perché l'eternità garantisce per lui, ma spera perché egli ama, e ringrazia l'eternità del fatto che egli osa sperare. E per questo egli porta sempre il regalo migliore, migliore dell'augurio della più grande fortuna, migliore di ogni aiuto umano in caso di massima sfortuna, poiché la speranza, la possibilità del bene, è l'aiuto dell'eternità».
Di questo aiuto c’è espressamente bisogno allorché lo sperare che l’altro si converta al bene dura tutta una vita, ma senza che accada alcun ravvedimento. Allora diverrebbe chiaro a tutti che chi ha sperato in lui dovrebbe vergognarsi di averlo fatto. Questo Discorso si conclude con l’ipotesi che il padre del Figliol prodigo non l’abbia visto ritornare pentito, ma abbia invece dovuto constatarne la perseveranza nel male sino all’ultimo giorno. Questo padre, al funerale del figlio, non avrebbe allora dovuto vergognarsi, di fronte a tutti, di avere sperato invano? E non avrebbe dovuto infine vergognarsi di fronte all’eternità, una volta che anch’egli vi fosse pervenuto?
«Nell'eternità ognuno dovrà necessariamente comprendere che non è la conclusione ciò che determina onore e vergogna, bensì quale fu l'attesa in se stessa. Per questo nell'eternità rimarrà nella vergogna proprio l'uomo senza amore che forse, da gretto, invidioso, pieno di odio, ha avuto ragione per quanto si è aspettato da un altro uomo: costui sarà nella vergogna — indipendentemente dal fatto di avere indovinato con la sua previsione».
Il rapporto con l’eternità è la costante degli atti dell’amore, ma non significa affatto che questi possano essere compiuti prescindendo dal tempo. Al contrario: l’eternità è il partner di ogni attimo, di ogni vissuto che non sia tradimento di sé e del proprio interesse: «L'autoinganno è il superbo autocompiacimento che ritiene sia vano cercare qualcosa che gli sia degno» [158].
7. Il pari a pari cristiano
Chi compie un atto d’amore presuppone invece che ci sia qualcosa e qualcuno degno di eterno amore. È la legge del «pari a pari» [lige for lige], illustrando la cui portata Kierkegaard sceglie di concludere Gli Atti dell’amore. Kierkegaard la formula in base alle parole con cui Gesù rispose alla richiesta di aiuto del centurione: «Ti sia fatto come hai creduto»:
«Il cristianesimo ha cancellato il pari a pari giudaico dell'«occhio per occhio e dente per dente», ma ha messo al suo posto il pari a pari cristiano dell'eternità. Il cristianesimo […] fa di ogni tuo rapporto con gli altri uomini un rapporto-con-Dio: la conseguenza è che il pari a pari ti verrà applicato sia nell'uno sia nell'altro di questi due riferimenti».
Nel caso del perdono, ad esempio, l’uomo dovrà tenere presente che verrà da Dio perdonato «come» egli avrà perdonato al suo prossimo:
«Il pensiero del cristianesimo è: perdono è perdono; il tuo perdono è il tuo perdono; il tuo perdono a un altro è il perdono tuo proprio; il perdono che dai lo ricevi, e non, alla rovescia, il perdono che ricevi lo dai. […] Dio ti perdona né più né meno né diversamente da come tu perdoni ai tuoi debitori. È solo un'illusione dei sensi ritenere che si possa avere il perdono per se stessi ed essere pigri nel perdonare agli altri».
Il pari a pari cristiano non smentisce affatto «l’infinita differenza qualitativa» fra l’uomo e Dio, ne fonda anzi la possibilità. Proprio l’irriducibile trascendere di Dio fa sì che l’uomo gli possa stare veramente davanti «nell'appropriazione della più appassionata interiorità», con tutta la sua consistenza esistenziale, dunque con tutto se stesso, così come Dio pone in gioco tutto se stesso in quanto amore incondizionato per l’uomo. L’uomo e Dio sono inter-essenti, e dunque alla pari interessati al rapporto che nell’amore li lega in virtù del loro stesso infinito differire. Il «pari a pari» non pone sullo stesso piano la sostanza-uomo e la sostanza-Dio», bensì istituisce «la parentela dell’uomo con Dio» [Menneskets Slægtskab med Gud] che viene alla luce ogni volta che l’uomo compie un atto d’amore, ma che è nascostamente attiva sempre e in ogni uomo proprio perché ogni uomo, in quanto amato da Dio, è fatto per essere in amore alla pari di Dio. Se Dio ha stretto parentela d’amore con ogni uomo, allora ogni singolo uomo è parente in amore di tutti i singoli uomini, e tutti gli uomini sono in Dio uguali a lui: «uguaglianza dell’eternità». La novità cristiana introduce nell’antropologia la scoperta che nella definizione stessa di uomo si deve immettere il suo essere «il prossimo»: il prossimo in amore di ogni altro uomo. Il «prossimo» e il «dovere» di amarlo sono intrinseci alla definizione stessa di uomo:
«Con “il prossimo” è come con la determinazione “l'uomo”»: ognuno di noi fa parte degli uomini, ed è anche ugualmente ciò che ciascuno è in particolare, ma la determinazione fondamentale è essere uomo. […] Il cristianesimo non ha nulla in contrario al fatto che il marito ami la moglie in modo particolare; ma non la deve amare in modo tanto particolare da farne un'eccezione rispetto al fatto che lei è il prossimo».
Il dovere di amare il prossimo salva ogni differenza terrena dall’autoinganno della chiusura egoistica in sé, la fa essere veramente se stessa, e così la «eleva» per la via più breve all’incondizionata capacità di amare e di essere amata. Diversamente da ogni uguaglianza proposta e predicata in precedenza, il cristianesimo,
«mediante la scorciatoia dell'eternità [Evighedens Gjenvei], è subito alla meta: lascia che restino tutte le differenze, ma insegna l'uguaglianza dell'eternità [Evighedens Ligelighed]. Esso insegna che ognuno deve elevarsi al di sopra della differenza terrena», […] lascia che restino tutte le differenze della vita terrena; ma nel comandamento dell'amore, nell'amare il prossimo, è contenuta proprio questa uguaglianza dell'elevarsi al di sopra del differire della vita terrena».
L’uguaglianza cristiana si raggiunge «subito» in ogni atto d’amore, ed è uguaglianza al vertice. Ogni uomo, anche il più misero, è in grado di compiere atti d’amore, ad esempio nell’essere misericordioso, anche quand’egli è il più povero e misero degli uomini, poiché la misericordia è un atto dell’amore «anche quando non può dare nulla e fare nulla».
Proprio perché Dio trascende in modo irriducibile tutte le differenze umane, queste sono tutte ugualmente abilitate a compiere gli atti dell’amore, purché si pongano davanti a Dio e restino in rapporto con Dio. Per questa stessa ragione nessun uomo potrà vincere l’egoismo se, anziché rapportarsi all’amore di Dio, vorrà invece misurare la propria capacità di amare ponendola a confronto con quella degli altri, necessariamente finita. «La comparazione [Sammenligning] è autocombustione», è la «cattiva compagnia», è «la peggiore di tutte le seduzioni», è un «indugio»: una fatale perdita di tempo, perché distoglie l’io che si confronta con gli altri dal compiere gli atti dell’amore:
«Quando l'oggetto è finito, allora l'amore indugia presso se stesso, mentre indugiare infinitamente presso se stesso è precisamente muoversi [jast at bevæe sig]. […] Si tratta di un raddoppiamento [Fordoblelse], e dunque non vi è comparazione».
L’amore «si muove», non conosce «i vincoli immensi» della parmenidea immobilità dell’essere. Sostenuto dall’inter-esse degli amanti, raddoppia se stesso. Tutto è nuovo: perché gli atti dell’amore sono la traduzione costante del «debito» di amare in donazione d’amore, senza fine. Quanto più grande è il «dovere» di amare e tanto più aumenta la traduzione in «atto» dello stesso amore, senza che mai venga meno il debito, senza che mai il debito d’amore cessi di venire onorato dal dono dello stesso amore: ripetizione dello stesso amore nel debito e nella donazione: raddoppiamento. Nella raccomandazione di Paolo: «Non restate in debito di nulla con nessuno, se non di amarvi vicendevolmente (Rm 13, 8)», Kierkegaard trova lo spunto e la conferma per cogliere nel dovere cristiano dell’amore non un’imposizione ma un «aiuto» ad amare, dato che il precetto non risulterebbe nemmeno capito come precetto se restasse puro precetto, se non venisse subito e costantemente tradotto in atti d’amore:
«Così l'amore, con l'aiuto del dovere, cristianamente resta in azione, con la velocità dell'azione [i Handlingens Fart], e precisamente per questo resta nel debito infinito […] Il cristianesimo dice che è un dovere [Pligt] restare in debito, e con ciò dice che si tratta di un'azione ».
Gli atti dell’amore esprimono un dovere che è già azione, un debito che è già fruizione, un imperativo che viene da Dio ma che è anche «accentuazione dell’interiorità» umana. Essi sono la scoperta cristiana che apre ad ogni uomo, non solo al cristiano, la possibilità di «elevarsi» e di raggiungere «l’uguaglianza dell’eternità». Compiere gli atti dell’amore resta certo cosa molto difficile; ma difficile in ugual modo per tutti, e per questo ugualmente possibile e provvidenzialmente doverosa per tutti. Afferma Climacus, lo pseudonimo “non ancora cristiano” del Kierkegaard della Postilla:
«La mia intenzione è di rendere difficile il divenire cristiano, tuttavia non più difficile di quanto non sia […], qualitativamente difficile ed essenzialmente della stessa difficoltà per tutti».
Umberto Regina